“Solitudine, incertezza e angoscia dovuti alla pandemia possono intensificare una crisi mentale già acuta, e in Usa si registra un +20% nelle ricette per ansiolitici e antidepressivi durante la quarantena. Nel Regno Unito la domanda per questi medicinali minaccia di superare l’offerta, dopo aver già registrato oltre il doppio di prescrizioni mediche nell’ultimo decennio”.
Così apre sul Guardian un articolo di Robin Carhart-Harris, responsabile del Centre for Psychedelic Research all’Imperial College di Londra e da 15 anni in prima fila nella ricerca sull’uso terapeutico degli allucinogeni, in particolare la psilocibina per casi di depressione cronica e/o resistente ad altri trattamenti. Il quale prosegue spiegando che i tipici antidepressivi SSRI (gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) spesso sono soltanto dei pallativi e provocano pesanti effetti collaterali, mentre la terapia psichedelica offre un pacchetto ben più articolato ed efficace.
Segnalando poi il referendum previsto a novembre in Oregon per avviare servizi medici basati sulla psilocibina come utile strumento anche per unificare il variegato fronte psichedelico, Carhart-Harris ricorda lo “stigma che colpisce tuttora sia queste sostanze che la salute mentale”. E chiude sottolineando che queste terapie possono offrirci le stesse importanti lezioni emerse per molti durante la quarantena: “espansione della coscienza e ritmi di vita rallentati, contemplazione della propria e altrui impermanenza, apprezzamento per cura, amore e vita”.
Un sentito e qualificato invito a spingere gli enteogeni verso il mainstream, a partire proprio dalle applicazioni delle ultime indagini scientifiche. È quanto conferma un recente intervento su Science Times che sintetizza i risultati di test clinici con i “funghetti magici”. La psilocibina ivi contenuta sembra innescare bassi livelli di glutammato nell’ippocampo, portando così alla dissoluzione dell’ego in senso altruistico e positivo. Da qui le ulteriori potenzialità nel trattamento di disturbi mentali caratterizzati dalla distorsione dell’esperienza del sé. Promesse che diventeranno realtà “quando gli esperti potranno comprendere e conoscere meglio il modo in cui queste sostanze operano a livello neurochimico”.
Analogo rilancio propone addirittura la maggiore testata nostrana, Repubblica, pur se risalente al dicembre scorso e riapparso sui social media in questi giorni forse sempre rispetto al quadro post-pandemia. Segnalando lo studio clinico di fase 1 curato dagli psichiatri del King’s College di Londra, l’articolo spiega che “a ottantanove volontari sono state date dosi di psilocibina o placebo e chi ha assunto la sostanza ha avuto previste esperienze psichedeliche tra cui allucinazioni, euforia e stati d’animo alterati, ma senza effetti negativi sul funzionamento cognitivo o emotivo”. Un primo ma importante passo anche per i quasi tre milioni di italiani che soffrono di depressione.
Questi non sono altro che alcuni esempi freschi della maggiore attenzione che l’ambito mainstream va dedicando alla ricerca scientifica nel campo (e annesse dinamiche cultural-politiche). Segnale indubbiamente positivo. Attenzione però al rischio della rapida commercializzazione, anche a livello d’informazione, suggerendo la creazione di sostanze “su misura” o immaginando una pillola magica capace di risolvere al volo condizioni complesse e pregresse. Mentre l’intera esperienza psichedelica (il cosidetto ciclo di morte e rinascita) è un processo polivalente e basilare lungo il percorso di vita individuale e collettivo, inclusa la fase dell’integrazione successiva. Niente scorciatoie, please.