Etnobotanica 6: Lactuca serriola e lactucarium

Il nome Lactuca deriva da lactus che in latino identifica il latte. Infatti la pianta, una volta incisa, secerne un abbondante liquido bianco e lattiginoso.

Lactuca_serriola Gli antichi Greci associavano la lattuga selvatica all’impotenza maschile e la servivano durante i funerali. Erodoto la menziona come pietanza degli dei Persiani del 400 a.C..

Gli antichi Romani la usavano come afrodisiaco ed analgesico: si dice che Augusto le avesse dedicato una statua dopo essere stato guarito da una malattia mortale.

Il naturalista Plinio il Vecchio ne descrive le proprietà nella sua Naturalis Historia. Gli Egiziani estraevano dai semi un olio molto pregiato dalle proprietà afrodisiache e promotrici della fertilità oltre che analgesiche e narcotiche.

MEDICINA TRADIZIONALE
Nella medicina Unani la Lactuca serriola, nota come kahu, viene impiegata come sedativo, ipnotico, antisettico, espettorante, antitussivo, purgante, vasorilassante, diuretico ed antispastico. Viene considerata molto efficace contro bronchite, asma e pertosse.

Il lattice essiccato, chiamato lactucarium, viene consumato come rimedio per insonnia, ansia, nervosismo, iperattività, tosse secca, pertosse e dolori reumatici. Si usa anche la parte aerea fresca o essiccata sotto forma di decotto, infuso o tintura alcolica; dai semi si estrae un olio dalle proprietà antipiretiche ed ipnotiche [1].

In Afghanistan selezionano le radici fresche dalle piante fiorite e le incidono lateralmente diverse volte. Quindi le lasciano a mollo per una notte in un recipiente pieno d’acqua a temperatura ambiente, facendo attenzione a proteggerlo dalla luce che danneggia il preparato e lo rende inefficace. L’infuso viene filtrato e consumato prima dell’alba come rimedio per la malaria [2].

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Etnobotanica 5: Ipomea tricolor e alcaloidi ergolinici

Ipomea Le ipomee fioriscono e muoiono in un singolo giorno: per questo sono da sempre simbolo di amore, passione e mortalità. Nel folklore cinese rappresentano gli amanti che si riescono ad incontrare per un solo giorno. Le antiche popolazioni mesoamericane utilizzavano il succo fresco della pianta come fonte di zolfo, necessario per vulcanizzare la gomma che estraevano da alcuni alberi.

Il noto educatore benedettino Pedro Ponce de Leon scrisse che i semi di Ipomea violacea, chiamati Tlitliltzin in lingua Nahuatl in riferimento al loro colore nero, venivano impiegati insieme al peyote e all’ololiuqui distinguendo per la prima volta la Rivea corymbosa dall’Ipomea violacea. Agli intossicati appare un piccolo uomo nero che esaudisce ogni desiderio, altre volte vedono Dio o degli angeli.

L’esperienza si svolge in un luogo appartato con l’ausilio di un guardiano per evitare che abbiamo contatti con altri mentre parla in preda al delirio. Una volta svaniti gli effetti, si chiede cosa avesse detto e la risposta viene considerata come una verità assoluta [1].

Ipomea Viene menzionata da Albert Hofmann nel libro curato insieme a Richard Evans Schultes e Christian Rätsch, Plants of the Gods: Their Sacred, Healing, and Hallucinogenic Powers (1994), come Ipomea violacea ma dall’immagine si vede chiaramente che la specie è invece una tricolor varietà heavenly blue (si nota dalla corolla che non è bianca) [2]. Sono molto simili e secondo alcuni autori sarebbero sinonimi: tuttavia piccole differenze tassonomiche permettono di distinguere due specie appartenenti a sottogeneri diversi, Eriospermum per la violacea e Quamoclit per la tricolor.

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Etnobotanica 4: Stramonio e altre Daturae

Datura Datura e Brugmansia sono piante che hanno popolato l’immaginario collettivo sin dall’età del bronzo. Compatibilmente con l’alta capacità di adattamento a diverse condizioni ambientali che ha permesso alle specie di spostarsi attraverso il globo, ritroviamo tracce del loro impiego medicinale e rituale in tutto il mondo.

Nel corso del tempo, anche per via della loro tossicità e per gli effetti delirogeni indotti dagli alti dosaggi, l’uso medicinale è stato completamente abbandonato. Tuttavia le potenzialità farmacologiche di queste specie, ormai coltivate come ornamentali, rimangono straordinarie.

BOTANICA
La tribù delle Daturae appartiene alla famiglia delle Solanaceae ed è carattarizzata dagli appariscenti fiori a tromba. Queste piante sviluppano alti livelli di alcaloidi tropanici come metaboliti secondari che sono stati utilizzati per le classificazioni tassonomiche.

La divisione dei due generi Datura e Brugmansia è molto controversa, alcuni autori consideravano la seconda come una sezione del genere Datura. Anche l’identità delle sezioni Stramonium, Dutra e Ceratocaula in base alla posizione e dalla deiscenza del frutto non è accettata allo stesso modo dai vari autori.

Già nel 1999 Mace aveva proposto Datura ceratocaula l’anello di connessione primitivo tra i due generi, confermando la presenza delle 3 sezioni oltre a spostare la discolor in mezzo tra Dutra e Stramonium [1].

In un altro studio le Daturae sono state divise in due gruppi in base alla concentrazione di composti 3,6-disostituiti: il primo con Brugmansia e Datura metel, il secondo con il resto delle specie aventi un livello inferiore di questi composti. Data l’unicità del profilo chimico della ceratocaula rispetto al resto, gli autori hanno negato la possibilità che legasse Brugmansia e Datura [2].

Analisi filogenetiche recenti hanno confermato la monofilia della tribù Daturae e la distinzione dei due generi Datura e Brugmansia. La ricerca ha rilevato la presenza di due diverse linee genetiche: quella della Datura ceratocaula che corrisponde alla sezione monospecifica Ceratocaulis e un altra da cui si sono sviluppate il resto delle specie del genere.

Data la polifilia della sezione Dutra gli autori hanno proposto la divisione in due sole sezioni: Datura con le specie arenicola, discolor, ferox, quercifolia, kymatocarpa, leichhardtii e stramonium; Dutra con inoxia, lanosa, metel, reburra e wrighttii.
Le due sezioni sono chiaramente distinguibili dal margine del seme [3].

STORIA ED ARCHELOGIA
L’origine del termine neo-latino stramonium non si conosce bene: secondo alcuni autori deriva dal nome della pianta in greco antico, in latino si traduce con la perifrasi “mandato a morire.
Nel XVI secolo a Venezia con stramonia si ci riferiva alla Datura metel, lo stramonio infatti si è diffuso in un secondo momento e il nome è stato trasferito da una specie all’altra. Datura deriva invece dall’indù dhatur, proveniente a sua volta dal sanscrito dhustura, nome impiegato in India per identificare la Datura fastuosa e metel.

La vecchia ipotesi sulla presenza esclusiva del genere Datura nel Nuovo continente prima del viaggio di Colombo è stata smentita dai reperti ritrovati in Europa, secondo Samorini i dati in Europa sarebbero più antichi e suggerirebbero che lo stramonio sia una pianta autoctona europea oltre che americana [4]. Tuttavia studi filogenetici sembrano smentire questa teoria localizzando il centro di dispersione originale in Messico e sudest degli USA [5].

Alcuni autori per conciliare le evidenze contrastanti hanno elaborato una tesi secondo cui alcune Datura si sarebbero diffuse dall’America all’Europa in tempi precolombiani come è successo per la patata dolce in Polinesia [6].

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Etnobotanica 3: funghi Psilocybe

funghi psilocybeNon si sa con precisione quando il genere Psilocybe sia originato: in base a dei reperti fossili di Archaeomarasmius, un genere estinto, si stima che la presenza dell’ordine Agaricales risalga al Cretaceo medio [1].

Tuttavia data la struttura soffice degli agaricali che ne rallenta la fossilizzazione, alcuni autori ipotizzano possa essere antecedente a questo periodo.

La maggior parte degli archeologi non ritiene che i funghi psilocibinici abbiano avuto un qualche ruolo nella preistoria, le teorie riguardo ad un eventuale influsso sulle popolazioni del Vecchio Mondo sono molto controverse.

MESSICO
La maggior parte delle evidenze archeologiche sull’uso enteogenico degli Psilocybe sono tutte localizzate in Messico: una statua con le fattezze dello Psilocybe mexicana è stata ritrovata in una camera mortuaria di circa 1800 anni fa a Colima in Messico.

I funghi psilocibinici venivano ampiamente consumati dalle popolazioni della Mesoamerica a scopo religioso, divinatorio e curativo. Venivano chiamati dagli Aztechi teōnanācatl, fonghi divini; è riportata la loro presenza nella cerimonia dell’incoronazione di Moctezuma II nel 1502. Il missionario spagnolo Bernardino de Sahagùn ha notato il loro diffuso impiego rituale mentre accompagnava Cortes durante il suo viaggio in America Centrale. In uno dei suoi disegni si vede un nativo Nahuatl che mangia un fungo con riflessi bluetti [2], secondo alcuni autori si tratterebbe di Psilocybe caerulea.

Dopo la conquista Spagnola delle Americhe il loro consumo venne proibito insieme alle altre sostanze psicotrope naturali e riti tradizionali per permettere l’instaurazione della nuova religione cristiana [3]. Tuttavia in alcune zone l’usanza è sopravvissuta fino ai giorni nostri. Continua qui

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Etnobotanica 2: Desmodium pulchellum, legume misterioso

BOTANICA
Desmodium pulchellumIl genere Desmodium è polifiletico e comprende più di 250 specie diverse tra cui piante annuali, perenni e piccoli alberi distribuiti nelle regioni temperate e tropicali di entrambi gli emisferi, con un particolare concentrazione nel continente americano. La nomenclatura di questo genere è molto confusa e ancora controversa: alcuni autori lo considerano tutt’uno con i generi Codariocalyx, Hylodesmum, Lespedeza, Ohwia e Phyllodium. Gli errori di identificazione sono molto comuni, studi citologici hanno dimostrato una notevole variabilità nella lunghezza dei cromosomi delle varie specie [1].

Il Desmodium pulchellum syn Phyllodium pulchellum è un sottocespuglio eretto che cresce fino a 1,5m. Le foglie sono trifoliate, quelle piccole laterali presentano nella parte interna una sottile peluria, le grandi centrali sono lunghe fino a 13cm e larghe più del doppio rispetto alle altre. I delicati fiori bianchi vengono nascosti dalle foglie più piccole e sono distribuiti su delle infiorescenze lunghe fino a 25cm. I baccelli pelosi hanno una forma oblunga e sono uniti a gruppi di tre.

MEDICINA TRADIZIONALE
Nella regione di Assam si crede che tenere un ramo di desmodio vicino o sotto la casa possa allontanare le cimici dei letti [2]. Nella medicina ayurvedica il desmodio viene indicato per il trattamento piressia, emottisi, ascessi, epatite icterica, faringite, malnutrizione infantile, dissenteria, disturbi urinari, parotite, colecistite, malaria, encefalite epidemica ed altre affezioni [3]. I fiori di Desmodium pulchellum si masticano per combattere le carie e la sua corteccia si usa contro mal di testa e pressione alta. La radice si consuma per alleviare il bruciore addominale [4]. Il decotto delle foglie mischiato con una resina di fiori di Hibiscus viene consumato due volte al giorno per 3 giorni per controlla il flusso mestruale eccessivo [5]. La pianta è stata usata anche per il trattamento di schistosomiasi ed infezioni da trematodi epatici.

Diverse specie di Desmodium venivano utilizzate in Cina già 3000 anni fa per abbassare la temperatura interna e la febbre, neutralizzare le tossine, stimolare la circolazione e la produzione di nuove cellule sanguigne, alleviare dolore, tosse e dispnea. Il pulchellum ha anzi una lunga tradizione nella medicina tradizionale cinese: il decotto di foglie secche viene indicato per il trattamento di febbre, malaria, reumatismi, dolori ossei, edemi, iperplasia epatica e della milza. Quello a base di radice carbonizzata viene impiegato per ridurre il flusso mestruale eccessivo. La pianta intera viene consumata per il trattamento di di febbre reumatica, convulsioni infantili, mal di denti, edemi e indigestione. Le foglie fresche vengono pestate ed applicate su ulcere, ferite ed emorragie [6].

A Taiwan è stato impiegato per il trattamento di febbre e fibrosi epatica, mentre la medicina popolare malesiana propone un decotto con la radice per accelerare la ripresa durante il puerperio. Nelle Filippine se ne applicano le foglie su ulcere e pustole [7]. In Bangladesh, dalla parte aerea più tenera si ricava un decotto per il trattamento di edemi [8]. (Continua qui)

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Etnobotanica 1: Kava, l’enteogeno del Pacifico

Parte oggi questa rubrica a cadenza quindicinale sulle piante psicotrope più interessanti che coinvolge tutti i continenti – all’Amazzonia all’Estremo Oriente, senza nessun limite geografico o culturale. Oltre a una parte teorica sull’etnobotanica e sulla farmacologia delle varie specie, gli articoli verranno integrati da una parte pratica con le informazioni tecniche su estrazione e lavorazione. Con un occhio di riguardo per le nuove scoperte della scienza moderna, ma senza sminuire il valore delle conoscenze antiche.

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BOTANICA

KavaIl genere Piper include circa 200 specie, 10 di queste vengono largamente impiegate per la produzione di spezie culinarie e fitofarmaci. La kava (Piper methysticum, dal latino “pepe intossicante”) è un cespuglio molto comune in gran parte delle isole dell’Oceano Pacifico. La radice, spesso chiamata erroneamente rizoma, è costituita da un vigoroso fusto principale da cui dipartono delle ramificazioni laterali che terminano in estremità sottili e filiformi.

Deriva da una cultivar selvatica più antica, Piper wichmannii. Analisi genetiche lasciano supporre che il methysticum, arbusto dioico sterile, sia stato clonato in seguito ad un lungo processo di selezione dei mutanti migliori [1].

La differenza principale tra le due specie sta nella radice che ha un tessuto molto più duro e legnoso nella wichmannii, infatti vengono spesso confuse o vendute indistintamente. Per esempio un campione raccolto a Tangoa in Vanuatu è stata identificato contemporaneamente da due erboristi come methysticum e wichmannii [2]. Anche tra i nativi le distinzioni sono poco chiare, infatti sull’isola di Vanuatu vengono chiamate indistintamente kava. In alcune zone come Maewo e l’isola di Pentecoste anche la specie selvatica viene impiegata per la preparazione della bevanda [3].

Diversi autori nel corso degli anni hanno formulato varie ipotesi sull’origine geografica della kava: nel 1959 Yuncker la definì “problematica” [4], poi Barrau ipotizzò fosse originaria dell’Indonesia orientale o di Papua Nuova Guinea [5]. Nel 1981 Smith ribadì che la provenienza della pianta fosse incerta [6], mentre nel 1989 Brunton suggerì che l’origine si potesse ritrovare nella Melanesia occidentale [7]. Lebot scrisse che la kava fosse stata introdotta dapprima a Vanuatu, luogo in cui si può ritrovare il maggior numero di cultivar diverse, meno di 3000 anni fa. Da lì si sarebbe poi diffusa in Fiji, Polinesia, Nuova Guinea e Micronesia.

Un’altra teoria, supportata anche dall’etnobotanologo italiano Samorini, si basa sul ritrovamento di un centinaio di mortai di pietra in Nuova Guinea e nelle isole vicine, particolarmente concentrati nell’arcipelago di Bismarck, isole Salomone e Nuova Guinea Orientale. Si ipotizza che, dati gli ornamenti preziosi, venissero impiegati in contesti rituali per la produzione di bevande disgustose a base di radici di Zingiberacee e Piper wichmannii. I martelli vennero poi abbandonati forse perchè la forma coltivata della kava, molto meno amara e nauseabonda, poteva essere masticata direttamente senza problemi.

Le discrepanze con la distribuzione geografica possono essere spiegate da un disuso della pianta che sarebbe tornata in voga successivamente, probabilmente in seguito alla selezione del Methysticum. La maggior varianza delle cultivar notata da Lebot a Vanuatu può essere spiegata dall’introduzione di altre varietà dalla Polinesia. La datazione di questi reperti potrebbe dimostrare che la kava venisse già consumata in Nuova Guinea più di 5000 anni fa [8]. (vai all’articolo integrale)

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Gli effetti psicoattivi dell’artemisia?

Assenzio maggioreL’assenzio maggiore (Artemisia absinthium) è un’erbacea appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Dedicato alle dee Artemide e Diana, nell’Antica Roma veniva considerato un erba protettrice e profetica in tutto il mondo antico; i soldati romani lo mettevano dentro i sandali per andare più veloci e per resistere più a lungo durante le marce. In Cina e Giappone veniva tenuto sugli usci per allontanare i malanni e gli spiriti maligni; stesso uso ebbe nell’Europa medievale dove veniva ritenuto un dono fatto dai tritoni all’umanità. E’ stato anche l’ingrediente principale della birra prima dell’avvento del luppolo e veniva fumato come tabacco dai marinai.

In Sicilia gli anziani facevano lo stesso con l’Artemisia arborescens, una pianta molto vicina all’absinthium. Nel 1792 il medico francese Henry Louis Pernod creò la ricetta del famoso liquore omonimo, riprendendo quella di un medico svizzero, denominato “assenzio come rimedio fitoterapico”. Il distillato venne poi bandito nel corso del XX secolo in diversi stati degli USA per via del suo potenziale allucinogeno che si imputava al tujone, un terpenoide presente nell’artemisia.

In realtà non era il tujone a causare gli effetti psicoattivi e i danni cerebrali, ma l’alcol. Bisogna infatti considerare che l’artemisia non era l’unico ingrediente della bevanda ma veniva fatta macerare insieme a melissa, issopo, angelica, anice stellato, dittamo di Creta, ginepro, noce moscata, veronica, semi di anice  e di finocchio. Quindi il menstruum veniva distillato riducendo ulteriormente il contenuto di tujone.

Gli effetti psicoattivi dell’artemisia stessa non sono dovuti solo al tujone, ma anche a molti altri terpenoidi e composti aromatici presenti nel ricco fitocomplesso della pianta tra cui acido rosmarinico, canfora, mircene, linalolo, etc.

Gli estratti di Artemisia absinthium sono potenti attivatori dei recettori muscarinici e nicotinici (IC50 <1mg/ml), con un azione comparabile a quella del cloridrato di carbamilmetilcolina.  Come altri agenti colinergici sono molto efficaci nello stimolare l’attività onirica e la memoria al risveglio.

Sono in molti ancora a credere che il tujone abbia effetti simili al THC per via della somiglianza strutturale, l’affinità per i recettori dei cannabinoidi è insufficiente ad avocare effetti psicotropi. Studi sugli animali dimostrano che agisce come inibitore del recettore GABA-A causando eccitazione in base alla dose. Infatti solo oltre una certa soglia diventa neurotossico e può causare convulsioni ed altri sintomi importanti, al contrario i dosaggi medio-bassi sono neuroprotettivi.

[ Qui l’articolo completo con magggiori dettagli ]

La Calea Zacatechichi

Calea ternifoliaLa Calea Zacatechichi (Calea ternifolia), nota anche come erba del sogno messicana, erba amara o foglia di Dio, costituisce probabilmente l’oneirogeno tradizionale più famoso. È una pianta della famiglia delle Asteraceae, usata soprattutto dagli indigeni Chontal, dello stato messicano di Oaxaca, per la oniromanzia, tecnica divinatoria basata sui sogni.

La pianta viene impiegata da sempre anche per il trattamento di diversi disturbi tra cui disordini intestinali, febbre, mancanza d’appetito, dissenteria e diabete. La farmacologia di questa pianta non è ancora stata del tutto compresa, ma si sa che è ricca di lattoni sesquiterpenici, composti amari in comune anche con altre piante oneirogene come l’artemisia.

Uno studio in-vitro sembra però contraddire l’alto profilo di sicurezza di cui da sempre gode, comparandola a un noto agente chemioterapico. Ricordiamoci che questa pianta viene consumata giornalmente per lunghi periodi a dosaggi anche alti senza particolari accortezze, infatti diversi onironauti sono rimasti spaventati dalle rivelazioni di questa ricerca.

Tuttavia il lavoro, come spiegano anche gli autori, non è affatto conclusivo e si scontra con delle analisi successive effettuate in-vivo da un altro team.

Casi del genere sono comuni per altre specie relativamente molto sicure come ad esempio la borragine, i composti tossici sono presenti a concentrazioni molto basse e vengono bilanciati da altri elementi presenti nel fitocomplesso.

Qui il testo integrale dell’articolo.

Kanna e mesembrina

Piantina di Sceletium emarcidumQuesta ricerca dettaglia tutto quello che sappiamo riguardo al “kanna” (Sceletium emarcidum o tortuosum), nome assegnato dai nativi sud-africani a una pianta succulenta della famiglia Aizoaceae, usata tradizionalmene soprattutto come euforizzante e intossicante. Il nome è lo stesso assegnato all’antilope alcina (Taurotragus oryx Pallas), animale sacro associato alla trance e ha un ruolo chiave come guida nella cerimonie e nelle danze rituali, dove veniva consumata anche la pianta.

Tra i nativi, oltre che come euforizzante e intossicante, si impiega a dosaggi ridotti anche come ansiolitico, calmante, analgesico, sonnifero, antiasmatico, per il trattamento di indigestioni, disturbi gastrici o della dipendenza da alcolici e per favorire una certa apertura mentale. Il kanna viene consumata anche durante il parto per limitare dolore, nausea, disturbi gastrici e costipazione e favorire la contrazione dell’utero. Nei bambini piccole dosi venivano infuse nel latte materno o nel grasso di pecora per favorire il riposo e combattere le coliche infantili.

Peter Floris, luogotenente del vascello inglese The Globe fu il primo occidentale a scrivere sul kanna nel 1610, identificandolo come radice di Ningimm, Una corruzione del nome vernacolare usato per ginseng. Infatti la pianta era estremamente preziosa ed ambita da mercanti olandesi e giapponesi (i primi a scoprirne il valore), una sorta di ginseng di Città del Capo. L’inglese aggiunse che il periodo giusto per la raccolta era compreso tra dicembre, gennaio e febbraio e che i locali la chiamavano “Canna”. Nel 1625 il chierico inglese Samuel Purchas riportò che la pianta era molto richiesta in Giappone per le sue proprietà medicinali, notò inoltre che diventasse tenera e dolce come i semi di anice quando matura.

Nonostante sia presente da molto tempo tra i cosiddetti “herbal highs”, non c’è nessun rapporto che attesti un possibile meccanismo di assuefazione o dipendenza indotto dal kanna. Anzi sono molti quelli che documentano le proprietà utili nel trattamento di diverse tossicodipendenze. Studi tossicologici hanno individuato il NAOEL, la dose massima prima della comparsa di effetti tossici sopra i 5.000mg/kg (in un modello di somministrazione ripetuta per 14 giorni). I risultati confermano i test precedenti effettuati su cani e gatti, il kanna risulta sicuro in modelli acuti e cronici anche a dosaggi medicinali relativamente alti.

Ovviamente il governo ha voluto bandire la mesembrina, un alcaloide del complesso (che a quanto sembra non è neanche il vero responsabile del potenziale narcotico ed ipnotico e manca nella maggior parte del kanna costituito dallo Sceletium emarcidum), come se fosse una minaccia per la nostra società ignorando al solito una miriade di evidenze scientifiche.

Qui il testo integrale della ricerca.