Etnobotanica 10: Akuamma, un seme oppioide

Akuamma La Picralima nitida è stata descritta per la prima volta nel 1985 dal botanico austriaco Otto Staptf come Tabernaemontana nitida. Un anno dopo il francese Luis Pierre l’ha inserita in Picralima, un nuovo genere creato basandosi sul sinonimo già in uso, P. klaineana.
Il nome Picralima deriva dal greco πικρός, che significa amaro, probabile riferimento all’amarezza dei semi della pianta.
Questo genere includeva un tempo anche Hunteria umbellata e Simii, ma ad oggi è monospecifico [1].

ETNOBOTANICA
Akuamma Nella medicina popolare dell’Africa Occidentale la Picralima nitida viene impiegata nel trattamento di febbre, infezioni, malaria, diabete e dolore [2].
In Cameroon e Guinea il decotto a base di frutto e corteccia della pianta viene consumato contro la tosse o la febbre tifoide. Le genti della tribù dei Fang li masticano per sopprimere la fame durante le lunghe camminate nella foresta [3].
Nella medicina popolare congolese il decotto di corteccia d’akuamma si beve come purgante e rimedio per l’ernia, mischiato ad altre piante viene impiegato contro la gonorrea.
Nella zona più occidentale della Nigeria il frutto viene indicato nel trattamento dell’asma [4].
In Costa d’Avorio i semi impastati con l’acqua vegono assunti in caso di pressione arteriosa alta [5].

 

FITOCOMPLESSO
alcaloidi: akuammina, pseudoakuammina, akuammidina, akuammicina, akuammigina, pseudoakuammigina, akuammilina, akuammenina, picrafillina, picracina, picralina, picralicina, picratidina, picranitina, burnamina, pericallina e pericina.
polifenoli: derivati cumestanici;
terpenoidi: sabinene, terpinenolo, α-selinene, β-cariofillene, β-selinene, α-terpineolo, α-pinene, cimene, eudesmolo, β-cuvebene, β-pinene e α-umulene;
steroli;
flavonoidi;
saponine;
tannini.

Il seme è la parte della pianta più potente e può raggiungere oltre il 5% di alcaloidi del peso secco [6].

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Psilocibina in primo piano, dall’Onu all’Oregon

funghi psilocybe cubensisLa copiosità di studi scientifici, test clinici ed esperienze sul campo a conferma dell’efficacia terapeutica della psilocibina (e di altri enteogeni) evidenziano l’urgenza di rivedere l’antiquata convenzione ONU sulle sostanze psicotrope del 1971 che include la sostanza nella lucchettata Tabella 1. Questo l’obiettivo della International Therapeutic Psilocybin Rescheduling Initiative (ITPRI) che ha appena lanciato una campagna internazionale per la riforma di tali normative ai danni dei funghi Psilocybe e derivati.

Mentre la Tabella 1 vuole limitare l’accesso a droghe pesanti e pericolose quali eroina e cocaina, questo mezzo secolo di proibizionismo ha bloccato anche buona parte della ricerca scientifica sugli psichedelici. Soltanto nel 1990 è ripartita una timida serie di test autorizzati con il DMT all’Università del New Mexico (USA), per poi crescere lentamente fino all’attuale “boom” di studi e applicazioni per una varietà di piante e composti psicoattivi.

Lo conferma David Nutt, responsabile del Centre for Psychedelic Research presso l’Imperial College londinese e fondatore di Drug Science: «L’inclusione della psilocibina nella Tabella I ha seriamente limitato, e continua a limitare, la ricerca neuroscientifica e lo sviluppo di trattamenti medici». Da qui la richiesta di riclassificazione in ambito ONU, quantomeno nella più permissiva Tabella II, con un iter analogo a quello già avviato per la cannabis. Obiettivo che raggruppa, sotto l’egida della campagna di ITPRI, entità quali Drug Science, Beckley FoundationMAPSMind Medicine AustraliaNierika A.C., Open Foundation e Osmond Foundation.

D’altronde proprio la formale depenalizzazione dell’uso personale dei funghi psilocibinici è già attiva in varie località USA statunitensi e cliniche canadesi: da Denver (per prima nel 20019) ad Ann Arbor (Michigan), Oakland e Santa Cruz (California) Somerville (Massachussetts) e altre città, con un analogo percorso appena partito perfino in Oklahoma (e in altri Stati USA). Anzi, tutti gli occhi sono puntati sull’Oregon, dove nel novembre 2020 gli elettori hanno approvato l’innovativa Measure 109 (56%) che istituisce centri psicoterapeutici basati sui “funghetti”, con entrata in vigore all’inizio dell’anno prossimo.

Proprio in vista di questa scadenza, si stanno definendo i dettagli di questa “prima volta” che potrebbe trasformarsi in un apripista per analoghe implementazioni anche al di fuori degli Stati Uniti. Secondo la bozza operativa appena diffusa dalle autorità locali, i pazienti maggiorenni potranno assumere oralmente i funghi all’interno di un’apposita struttura sanitaria, senza diagnosi o ricetta specifica ma presumibilmente per il trattamento di depressione, PTSD e dipendenze.

Oltre alle specifiche per la formazione del personale sanitario (almeno 120 ore di teoria e 40 ore di pratica), il testo chiarisce che i produttori potranno coltivare o possedere una sola specie di funghi: Psilocybe cubensis. Pur essendo oltre 200 le varianti psicoattive del Psilocybe, da tempo il cubensis «vanta una lunga storia di efficacia e sicurezza, è facile da coltivare al chiuso e pone minori rischi rispetto ad altre specie» – spiega Jessie Uehling, docente presso la Oregon State University.

Inoltre, la bozza prevede che, per ragioni sanitarie, non si potrà usare il letame come terreno di coltura per i funghi, nonostante certe specie crescano comunemente sul letame. Ancora, non si potranno aggiungere sostanze psicoattive (ad esempio l’alcol) e né dovranno essere confezionati in modo da attirare i minorenni. Soprattutto, la psilocibina dovrà essere esclusivamente estratta da funghi, in modo da impedire che il mercato venga invaso dalle multinazionali farmaceutiche tramite la sintesi chimica, per favorire invece i coltivatori locali.

Anche se alcuni gruppi internazionali sono già impegnati in quella che alcuni definiscono “mentalità da corsa all’oro“. Ad esempio, almeno un’azienda olandese, Synthesis Institute, ha acquisito delle proprietà in Oregon in previsione di questo nuovo mercato, soprattutto rispetto alla formazione. Rifacendosi ovviamente allo stesso modello olandese, dove i truffle derivati dai funghetti sono legali e venduti al dettaglio.

Al momento è in corso la fase dei commenti pubblici alla bozza, con ultima revisione prevista a settembre. Staremo a vedere.

The Mushroom Speaks: reti miceliali per salvare l’anima del mondo

Nel nuovo ventennio, il fungo è tornato a parlare? O forse non ha mai smesso di farlo, pur se a modo suo? Un dilemma-esperienza che trova un brillante rilancio in un nuovo documentario svizzero, centrato sul rapporto fra il genere umano e quelli che potrebbero essere, secondo Terence McKenna, i nostri principali alleati per sfuggire all’autodistruzione. È così che vengono presentati i funghi in questa interessante opera, che coniuga ricerca scientifica ed artistica, insieme a molto altro. The Mushroom Speaks si colloca sul filone inaugurato dal documentario Fantastic Fungi (2019) ed è ispirato al libro L’ordine Nascosto (2020) di Merlin Sheldrake, riagganciandosi anche sul grande schermo all’odierno revival psichedelico.

 

Non a caso la stessa autrice, Marion Neumann, mi racconta, all’esterno della sala cinematografica occupata di Parigi “La Clé”, che l’ispirazione del film è stata squisitamente psichedelica. Senza però limitarsi ai soli funghi del genere Psilocybe, il documentario espone svariate ricerche sul campo, fornendo una visione quanto più trasversale possibile della (meritata e necessaria) rivalutazione oggi in corso anche per il mondo fungino. Basti citare, per esempio, lo stimolante saggio The Mushroom at the End of the World (2021) dove l’antropologa Anna Tsing spiega fra l’altro come certi funghi possono aiutarci a sopravvivere all’antropocene, per esempio ripulendo i territori contaminati da radiazioni nocive e altro.

Utilizzare i poteri fungini per aiutare l’umanità è un’idea sposata e applicata con solerzia dagli adepti alla “micologia radicale”: ricercatori, il più delle volte indipendenti, che sulla scia di Merlin Sheldrake e Paul Stamets conducono indagini sperimentali approfondite per applicare i saperi della micologia all’ecologia, all’agricoltura sostenibile, alla medicina e persino all’edilizia. Anche Peter Mcoy, considerato uno dei maggiori esponenti della micologia radicale, è tra i protagonisti del film, esprimendo chiaramente i suoi ideali post-umanisti:  parla per conto dei funghi e  promuove un’idea di uomo-ecosistema (colonie di funghi proliferano anche all’interno e all’esterno del nostro stesso corpo) che si affaccia su un misterioso abisso.

Nel film si incontrano anche monaci zen, psichiatri, micologhe e moderne streghe o erbarie, profonde conoscitrici del mondo vegetale. Ma soprattutto si incontra il popolo-funghi, che dal micelio al frutto la fanno da protagonista assoluti. Si apprendono così gli affascinanti misteri del sottosuolo, composto da segrete alleanze fra minerali, micelio e vegetali; l’evidenza per cui sono i funghi a permettere alle piante di prolificare, dando inizio a un nuovo ecosistema e scambiandosi informazioni; e come grazie ai funghi la materia viene decomposta per tornare potenza attiva, a conferma del fatto che proprio un fungo è l’essere vivente più grande e antico sulla terra. Nè manca lo spazio per sottolineare il potenziale di certi funghi “magici” di alterare la coscienza, tanto da essere considerato un valido alleato anche per il direttore di un monastero zen.

Il documentario punta decisamente a “far parlare” i funghi, da cui la scelta di non accompagnare i protagonisti umani con le didascalie proprie di un documentario divulgativo. Una scelta stilistica dalle tinte psichedeliche e post-umane, che intende quindi decostruire ogni forma di arrogante antropocentrismo. È grazie a questo spirito ecologico che Marion Neumann, insieme ad una rete multidisciplinare di psicologi, cineasti, artisti e psiconauti, intende fondare un centro di riferimento per l’arte psichedelica contemporanea.

Nel suo complesso il documentario abbraccia e rilancia l’espressione coerente della scena psichedelica attuale, dove la corrispondenza fra etica ed estetica ha un ruolo centrale. Lo condivide con Descending The Mountain, altra fresca opera cinematografica svizzera, con prossima distribuzione online, di cui si può intanto gustare la deliziosa colonna sonora. Delicata esplorazione al bivio tra gli effetti dei funghi psilocibinici e la natura della coscienza in senso lato, questo film propone una sintesi del tutto originale, integrando le esperienze del ricercatore Franz Vollenweider e del maestro Zen Vanja Palmers. I quali compaiono anche in questo  The Mushroom Speaks, riuscendo a trasmettere il senso dell’esperienza mistico-psilocibinica espandendosi oltre i frattali e le fantasie kashmir per arrivare al cuore della mente scientifica e dell’occhio contemplatore (conquistandosi ampie lodi dalla comunità buddhista).

Che parlino o meno, l’universo fungino sembra dunque ispirare innovativi percorsi che integrano arte, letteratura, ricerca scientifica e spirituale. Un caleidoscopio che trova spazio anche in Italia, come rivela fra l’altro il primo numero della giovane rivista Axolotl (“Micelio”) o nel magazine indipendente siamomine, in cui viene presentata l’analogia fra la rete micorrizia ed il web. E, quel che più conta, quest’articolata rete di produzioni cultural-artistiche ci aiuta a riconoscere e stimolare nuove comprensioni dell’universo vivente, grazie anche alle rivelazioni di questi validi alleati.

Scienza e informazione per “assolvere” gli psichedelici – anche in Italia?

Lunedì 27 gennaio, nell’edizione del TG1 delle 13:30, è passato un breve servizio di Barbara Carfagna dedicato alla “nuova frontiera degli psichedelici”, in particolare sulla ripresa delle ricerche scientifico-terapeutiche sui vari composti (per lo più derivati da piante e sostanze naturali) comunemente definiti psichedelici. Il servizio è affiancato da un più ampio podcast, inclusivo di intervista con Federico Menapace di MAPS.

In apertura, si notifica un dato abbastanza preoccupante: il diffondersi di sindromi croniche di stress emotivo, a seguito del protrarsi estenuante della situazione pandemica, con tutte le incertezze che ne sono derivate. Ambito in cui queste sostanze sembrano dimostrarsi utili nel contesto della psicoterapia, come confermano gli ultimi studi (soprattutto nel mondo anglosassone) in casi di depressione, PTSD (disturbo post traumatico da stress) e ansia, in aggiunta alle prime applicazioni legali in ambito medico.

TG1 27.1.22 Nel servizio, Luca Pani, psichiatra e membro dell’Agenzia Italiana del Farmaco, dichiara l’alto fervore che anima questo campo della ricerca scientifica – si prevedono investimenti fino a 2,7 miliardi di dollari entro il 2027, con il lancio di decine di start-up e varie mega-aziende già quotate in borsa. Ribadendo tuttavia l’assenza di una regolamentazione ben protocollata di questi studi e l’urgenza di recuperare il tempo prezioso andato in fumo per via dell’imperante proibizionismo, con l’annessa ed erronea concezione degli psichedelici come sostanze “prive di proprietà terapeutiche, e pericolose per dipendenza e abuso” (nella lucchettata Tabella 1).

Certamente positivo il fatto che finalmente anche su canali mainstream come il TG1 ci sia interesse ad affrontare questioni fino a ieri “tabù”, nella speranza questo sia solo un primo segnale per ulteriori approfondimenti, soprattutto rispetto all’ampio scenario socio-culturale-politico-umano legato a queste sotanze e pratiche. Anche come stimolo per avviare un dibattito pubblico in Italia pressochè assente, diversamente da quanto avviene in USA e altrove.

Viene però da chiedersi se serviva davvero un evento epocale come la pandemia per attirare l’attenzione delle testate mainstream nostrane, considerando altresì che in un servizio durato meno di due minuti non si poteva andare troppo per il sottile, privilegiando l’attualità più stretta. E, più in generale, se solo situazioni anomale come l’emergenza-Covid possano davvero imprimere un’accelerata a queste ricerche.

In realtà, nonostante questo mezzo secolo di proibizionismo ormai allo stremo, in USA sono in corso da svariati anni sperimentazione cliniche di sostanze quali MDMA, psilocibina, ketamina, LSD. Per esempio, già nel 1990 fu autorizzato un test (di 5 anni con 60 volontari) all’Università del New Mexico per studiare gli “effetti mistici” del Dmt sintetico. E gli esiti degli studi con l’Mdma di Charles Grob sono apparsi sulle riviste mediche già nel 1996. A livello underground sono poi rifiorite pratiche psicoterapeutiche adatte allo scopo (correttamente delineate nel servizio del TG1), fino alla recente depenalizzazione dell’uso personale di funghetti e altre piante psicotrope naturali in alcune località.

Non è forse il caso che anche l’Europa – dove pure operano importanti pionieri nella ricerca come la Beckley Foundation e l’Imperial College londinese, oltre a varie entità minori sparse sul continente – inizi finalmente ad “assolvere” gli psichedelici da quest’accusa poco puntuale che li qualifica come meri “allucinogeni” e che, al pari di sostanze quali l’eroina o la morfina, li esclude completamente sia dalla ricerca scientifica che da qualsiasi altro tipo di consumo? Mentre, come dimostrano gli studi di cui sopra e altre analoghe indagini, è vero che in contesti e modalità controllati, molte di esse non siano né additive né neurotossiche ma anzi offrono evidenti benefici psicofisici.

Inoltre, alcuni recenti studi storici hanno rivelato che in Italia negli anni ’60 si sono compiute decine e decine di ricerche sperimentali proprio nei riguardi del trattamento di patologie psichiatriche e dipendenze. E anche sulle nostre sponde fortunatamente non tutti i ricercatori si sono lasciati convincere dal divieto legale in vigore dai primi anni ’70, continuando a svolgere, sommessamente eppur meticolosamente, l’investigazione circa il potenziale di questi composti.

Ora che finalmente perfino a mamma Rai sembra voler superare certi “tabù”, forse anche la nostra comunità scientifica vorrà accorgersi del “fenomeno” in corso e darci seriamente dentro con la ricerca? Vedremo. La speranza è sempre l’ultima a morire.

Etnobotanica 9: Amanita muscaria, fungo velenoso o medicinale?

L’Amanita muscaria è una specie complessa comprendente 4 diversi taxa – muscaria var. muscaria, muscaria subsp. flavivolvata, muscaria var. quessowii, muscaria var. inzengae – più altri 3 taxa che venivano considerati specie distinte, breckonii, gioiosa ed heterochroma [1].

La più comune in Europa e in Italia è la muscaria var. muscaria, riconoscibile dal classico cappello rosso e le verruche bianche che la pioggia può lavare via. Secondo Kögl e Erxleben il colore rosso è dovuto alla muscarufina, un derivato terfenilquinonico [2], la cui presenza però non è stata confermata dalle analisi successive. Inoltre si è visto che le tonalità gialle e rosse sono dovute ad un complicato miscuglio di composti molto labili diversi dai terfenilquinoni[3].

A. muscaria giallo/arancioneIn presenza di qualche carenza nello sviluppo del pigmento viola, la muscapurpurina, il fungo tende verso il giallo o arancione piuttosto che il rosso (foto a fianco).

Beringia
Mediante analisi filogenetiche sono stati individuati i 3 principali cladi (Eurasiatico, Eurasiatico-alpino e Nord-Americano) dell’A. muscaria distribuiti simpatricamente nel territorio dell’Alaska (Usa). Ogni specie condivide almeno 2 varianti morfologiche con le altre compatibilmente col fenomeno del polimorfismo ancestrale. Gli autori ipotizzano che si tratti di specie gemelle e non allopatriche, evolutesi in Beringia quindi frammentatesi in Nord America ed Eurasia.
Popolazioni di ciascun clade potrebbero esser sopravvissute nella zona adattandosi al freddo [4].

Infatti da una ricerca successiva si è visto che in effetti l’A. muscaria era già presente in Alaska durante l’ultimo periodo glaciale. Due popolazioni endemiche (aplotipo D in Clade I ed aplotipo D in Clade II) sono state individuate nella foresta boreale della regione interna e nelle foresta pluviale marittima dell’Alaska Sud-orientale e del Pacifico Nord-occidentale.
Molti aplotipi in Clade II erano condivisi con gli esemplari eurasiatici suggerendo un corposo fenomeno migratorio attraverso lo Stretto di Bering e aprendo la possibilità di un colonizzazione postglaciale dall’Asia [5].

Anche le analogie nelle pratiche associate al consumo del fungo fanno pensare a un antenato beringiano comune che accomuna le tribù nord-mericane ed euro-asiatiche.

ETNOMICOLOGIA

USA e Canada
Gli Ojibway (noti anche come Anishinaabe) e altre tribù Algonchine, come gli Innu e gli Abenachi, la impiegavano a scopo divinatorio nei rituali sciamanici. Un padre superiore dell’ordine dei Gesuiti, Perc Charles I’Allemant, scrisse nel 1626 una lettera dal Quebec al fratello in Francia, descrivendo le credenze religiosi dei nativi Algonchini. Riporta che fossero sicuri che una volta morti sarebbero andati in paradiso dove avrebbero mangiato funghi e intrattenuto rapporti sessuali.

Gordon Wasson, il famoso etnomicologo statunitense, dopo aver ricevuto questa notizia dall’amico e collega Claude Levi-Strauss, contattò un certo Nichols presso l’Università del Wisconsin che gli diede il contatto di uno sciamana Ojibway, Kenvaydinoquay. La donna era l’ultimo abitante di una piccola isola nell’area dei Grandi Laghi ed un esperto conoscitore della sua cultura [6].

Si deve a lei il racconto sulle origine dell’Amanita recuperato da un ojibeweg, un disegno tradizionale su una corteccia di betulla che fungeva da riferimento mnemonico per le storie raccontate nelle serate invernali – come la seguente:

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Post Terapia: Psichedelia 2.0

Proponiamo di seguito alcuni stralci dell’articolo di Raffaele Cascone – psicoterapeuta sistemico-processuale, psicologo, presso il dipartimento Neuroscienze della Salute e Medicina Sperimentale, Università di Palermo – pubblicato sul numero di dicembre 2021 della rivista di musica MuMag:

Carlos Castaneda: Don JuanQuando alla fine degli anni ’60 del secolo scorso al culmine dell’era del rock e della psichedelia, uscì The teachings of Don Juan (in italiano A scuola dallo stregone), primo libro della saga dell’oriundo cileno-nord americano, scrittore e antropologo Carlos Castaneda, sembrò che non si trattasse di altro che di una narrazione astuta, che ri-introduceva nel mercato occidentale culture e pratiche, fino ad allora ai margini della cultura dominante, focalizzate sulla modulazione degli stati di coscienza, intesi come una pluralità di stati, in uno spettro che si estende dagli stati più riduttivi della convenzionalità fino agli stati alterati, alla perdita della coscienza e alle visioni mistiche.

Che la faccenda fosse più complessa ce ne accorgemmo fin dagli inizi: l’autenticità etnologica del materiale era dubbia, mentre circolavano anche voci di un segreto coinvolgimento nella scrittura da parte dell’intero dipartimento di antropologia dell’UCLA (University of California Los Angeles) e da parte dell’intero dipartimento di Etnometodologia di Harold Garfinkel con cui Carlos stava laureandosi.

Ciò avveniva in contemporanea con tre punti di virata: innanzitutto il dilagare attraverso i media elettronici del mercato degli stati d’animo, su cui da sempre si fonda la narrazione dell’universo Media, quella società dello spettacolo che ci arriva oggi, in forma transfigurata, come “spettacolo della società del virus”; poi il culmine dell’era rock con i due grandi festival-lager dell’isola di Wight e di Woodstock; infine il culmine dell’era psichedelica. Il declino di queste vicende fu brusco e inaspettato quanto tipico a causa della cessazione delle loro variegate condizioni di esistenza.

Altrettanto inaspettato è il fatto che oggi a sessant’anni di distanza queste condizioni si siano ricreate: a fine 2021, è in corso una massiccia entrata nei mercati e in borsa di investimenti nell’industria delle terapie psichedeliche, mentre Stati Uniti e Regno Unito approvano l’uso clinico terapeutico in psichiatria e in psicoterapia della Ketamina, in dosi sub-anestetiche, rivelatosi straordinariamente risolutivo in numerose sindromi resistenti alle cure. E’ l’inizio dell’era psichedelica 2.0, che noi preferiamo caratterizzare come nuova era “psicolitica”.

….

Nella terza pubblicazione della saga, “Journey to Ixtlan”, (Viaggio a Ixtlan), Castaneda, trickster o autentico antropologo, manipolatore mediatico o pontefice che sia, ricorda come, allorchè i conquistadores europei distrussero la civilta antica nativa sud-americana, precedendo il prossimo venturo terrificante imperialismo nord-americano in sud-america, la spiritualità e gli esseri spirituali del territorio ne beneficiarono in modo clamoroso. Parafrasando Castaneda: Quando il Tonal, le creazioni materiali di una civiltà vengono distrutte, il Nagual, vale a dire la spiritualità pura in quanto fonte inesauribile di tutte le potenzialità cresce in modo esponenziale e irresistibile.

Per quanto spesso respinta o addirittura squalificata dalle popolazioni native sud americane, nord americane, la narrazione di Castaneda, ha ancora oggi vari meriti e varie implicazioni operazionali tra cui quello di proporre una serie di sconfinamenti in chiave post-etnologica, post-psicologica e addirittura post-psichedelica alle credenze relative alla percezione di sé stessi e dell’esistenza e alle limitatezze della propria ontologia.

Negli ultimi 40 anni il numero dei suicidi aumenta e i progressi terapeutici sono pochi e irrilevanti, malgrado gli avanzamenti nelle conoscenze di quella sindrome da PTSD, disordine da stress post-traumatico, che era proliferata propria a causa delle numerose guerre combattute.

E’ conseguente che in risposta allo stallo professionale emerga una tendenza verso la de-professionalizzazione delle cure almeno di quelle “psichiche”. Proprio in questo periodo di tentativi massicci multinazionali di medicalizzazione dell’esistenza , appare una “resistenza” imprevista nei meandri della Rete, in direzione di una ricostruzione già in atto dei “Commons”, dello spirito e della solidareità comunitaria e indipendente.

Questa proposizione si posiziona rispetto agli interrogativi di Bruno Latour con i suoi “Chi sono, oggi?” e “Dove atterrare?” a cui risponde con una versione aggiornata e operazionale del Nagual, inteso come fonte inesauribile di tutte le potenzialità. I suoi elementi costitutivi sono: la Rete come medium-media in versione psichico-somatico-spirituale; la connettività in quanto “Neo-commons”, territorio comune in cui condividere le risorse e implementare il dispositivo “cento e più anni di vita creativa attraverso la condivisione anche di una sola ora tra 10.000 persone”; infine la riconquista di quel pezzo di terra sottratta, su cui ri-atterrare per dare sempre e di nuovo corpo alla musica vivente degli esseri e delle cose, soprattutto per condividerla anche attraverso la parola, le arti, gli artefatti, e le tecnologie correnti.

Un uscire multiplo

Di seguito un ulteriore intervento ripreso dagli Stati Generali della Psichedelia in Italia (SGPI21), proposto da Federico Battistutta e apparso sulla testata Machina (dell’editore Derive/Approdi). Si tratta di un’ampia riflessione critica sul cosiddetto «rinascimento psichedelico» e di un partecipe omaggio alla figura di Mark Fisher, di cui proprio in questo mese ricorre la data della sua morte (13 gennaio 2017).

* * *

“Vorrei un uscire multiplo, a ventaglio. Un uscire che non smetta, un uscire ideale, tale che, uscito, io ricominci subito a uscire”.
–Henri Michaux[1]

1. Da tempo si parla, a torto e a ragione, di «rinascimento psichedelico» per descrivere il rinnovato interesse in giro per il mondo per gli studi sulle sostanze psichedeliche e le sue possibili applicazioni. A testimonianza ci sono articoli su periodici e una cospicua bibliografia, tanto di testi divulgativi, quanto di ricerche accademiche. Molti in Italia preferiscono declinare la questione nei termini di un’acquisita maturità psichedelica nel corso degli anni, tesaurizzando le esperienze passate, incidenti di percorso inclusi.

Ma cosa si vuole intendere con questa espressione: «maturità psichedelica». Quale maturità e in che senso? Credo che sia importante aver chiaro le parole che usiamo, per intenderci reciprocamente ed evitare il rischio di equivoci, incomprensioni o di scivolare in vere proprie patologie comunicative.

Riflettiamo dunque su questa espressione: “maturità psichedelica”. Innanzitutto il termine «maturità» in biologia indica il pieno compimento della crescita fisica di un essere vivente; tanto per le piante, quanto per gli animali, umani inclusi. Se per gli animali umani è possibile risalire facilmente a una maturità fisica, più complessa appare la definizione di una maturità psichica, affettiva, etica e intellettuale. Del resto il latino maturus sta a indicare più sommessamente ciò che è «pronto per», ci parla di ciò che è tempestivo, opportuno, che accade ed è idoneo al momento giusto. Ma, a ben vedere, questo essere «pronto per» non definisce un’essenza bensì un processo, funziona sempre in relazione a qualcosa/qualcuno.

Provo a chiarire il discorso. Nella nostra lingua abbiamo la parola «adolescente», che deriva dal participio presente del verbo ădŏlescĕre (crescere, aumentare) di cui «adulto» ne costituisce il participio passato. L’adolescente sarebbe colui che sta crescendo, mentre l’adulto è chi è giunto al termine della crescita, diventando maturo. L’adulto sarebbe quindi il soggetto che ha la funzione di consumare il patrimonio accumulato in precedenza. Sembra semplice, ma in realtà le cose non stanno propriamente in questi termini. L’adolescente non è un adulto immaturo e l’adulto non è un adolescente al termine dello sviluppo.

Qui ci è di aiuto Georges Lapassade. Molti lo conosceranno come studioso competente della transe e degli stati modificati di coscienza[2], ma forse non tutti sanno che si è occupato, e non poco, anche di pedagogia. Il primo libro che pubblicò nella sua lunga carriera fu Il mito dell’adulto (in realtà il titolo originale è L’entrée dans la vie), un saggio dove sosteneva la tesi che l’essere umano è costitutivamente incompiuto. Ciò che caratterizza la specie umana, osservava Lapassade, è una condizione di costante incompiutezza, l’essere sempre in formazione, senza che si possa individuare un momento in cui il processo è concluso e il percorso di maturazione ha raggiunto la sua fine (o il suo fine)[3]. Lapassade qui riprende il concetto di neo-tenia elaborato nella prima metà del Novecento da Louis Bolk, direttore dell’Istituto di Anatomia dell’Università di Amsterdam, secondo cui sotto l’aspetto corporeo l’essere umano altro non è che il feto di un primate giunto a maturità sessuale[4]. L’ipotesi sul processo di ominazione che Louis Bolk ci consegna è decisamente spiazzante e va in controtendenza rispetto l’opinione comune: noi sapiens, siamo quel che siamo in quanto cronicamente immaturi e incompiuti; in altre parole, saremmo non scimmie progredite, evolute, bensì scimmie mancate. Bolk, dal canto suo, non considerava la componente creativa che a partire da questa condizione alimenta e nutre l’animale umano, divenuto così messaggero di storia e di mutamento continui. Ciò che non ha fatto Bolk lo ha compiuto, come abbiamo visto, Lapassade e non solo lui[5].

L’operazione di Lapassade, decostruendo la condizione adulta e la conseguente nozione statica di maturità, riducendo in fondo questi discorsi a materiale mitico, ha permesso di far emergere la prospettiva secondo cui lo sviluppo umano si gioca durante l’intero arco della vita. Detto altrimenti: l’età evolutiva coincide con l’intera vita umana, al cui interno la condizione adulta non è quel periodo circoscritto della vita nel quale consumiamo il patrimonio cognitivo, affettivo, etico ecc. accumulato nelle precedenti fasi, ma è pure esso momento di crescita, con le sue opportunità e difficoltà. All’interno di questo discorso va dunque demitizzata la nozione di maturità. La maturità va sempre contestualizzata, storicizzata e, soprattutto, ne va colta l’ineliminabile processualità, il continuo divenire. Divengo maturo – «pronto per» – in relazione a qualcosa/qualcuno; dove prima non ero in grado, ora sento di esserlo, di potercela fare. C’è una maturità dell’infante, una del bambino, dell’adolescente e così via. Si tratta dunque per Lapassade di passaggi, di un transito continuo (e questo aspetto permette, fra l’altro, di cogliere il legame tra i suoi studi pedagogici con quelli sugli stati di coscienza; in fondo Lapassade si è occupato sempre di transiti, si pensi solo alla sua nozione di transe[6]).

Ora torniamo a noi. Cosa c’insegna tutto ciò se lo riportiamo al discorso relativo alla maturità psichedelica? Cosa può suggerire? Se «psichedelico» vuol dire letteralmente «rivelatore della psiche»[7], queste rivelazioni non sono mai statiche, rinviano a continui divenire, a nuove epifanie, a quell’”uscire multiplo” di cui parlava Michaux nella citazione posta in esergo e pertanto richiedono costanti e plurali ridefinizioni e messe a punto della condizione di maturità.

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Cile: filosofia psichedelica nella musica e nell’arte

Proponiamo di seguito l’intervento di Andrea Orsini alla recente edizione 2021 degli Stati Generali della Psichedelia in Italia (SGPI21). Si tratta di una conversazione con AtomTM, maestro della musica elettronica e tecno, artista visivo e raver, ed Enrique Rivera, curatore d’arte e direttore della Bienal Artes Mediales di Santiago. Si parte da domande relative all’influenza della psichedelia nel lavoro di due interpreti della contemporaneità nella musica elettronica e nelle arti mediali. L’influenza delle esperienze personali nelle loro produzioni e la relazione ricercata con il pubblico. Esiste uno schema: dispositivo ipnotico – trance – catarsi? E in che modo si compone nella creazione? Le arti mediali, al di là dei meccanismi condizionanti del sistema-mercato, possono incontrare un focus e uno spazio di influenza nella ricerca di una nuova epistemologia e di una nuova visione dell’umano?

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Corrispondo dal Cile. Questo paese nella sua storia culturale moderna presenta aspetti originali di intreccio tra psichedelia, arte, filosofia, medicina, musica, antropologia, letteratura, psicologia, scienza e danza. La cultura cilena ha una vocazione all’interdisciplinarità che ha favorito esplorazioni inusuali e d’avanguardia.
Vi propongo un’intervista a due esponenti di questo Cile, il musicista, Uwe Schmidt, conosciuto con l’alias di AtomTM, e il curatore d’arte Enrique Rivera. La registrazione è stata realizzata specialmente per gli SGPI21. Uwe ed Enrique ci parlano della psichedelia in ambito musicale, artistico e culturale. Li ho invitati a questa riflessione comune perché persone molto attive nella produzione di eventi, e a contatto con la realtà cilena in una fase sociale e politica per alcuni aspetti straordinaria.

Se il Cile della dittatura è stato il primo laboratorio del neoliberismo dei Chicago boys, oggi con la vittoria del trentacinquenne Boric e la costituente presieduta da Elisa Loncon, donna di medicina Mapuche, si candida a diventare il laboratorio di un eco-stato basato sulla parità di genere e il rispetto delle minoranze. Certo, il conflitto economico tra ricchi e poveri è alla base di quanto sta succedendo. Ma si commetterebbe un grande errore a non vedere in questo movimento di trasformazione, presenti e centrali, altri due aspetti tra loro collegati: il superamento del patriarcato e il cambio di paradigma nei confronti della Natura, che vuol dire cambio della percezione e nuova coscienza. L’insorgenza degli ultimi due anni è stata fortemente ancestrale, magica e psichedelica, femminista e sessuale relativamente al rovesciamento del concetto di genere.

Idee che sono state sostenute e promosse da Claudio Naranjo, che a sua volta si è formato in un contesto collettivo di lunga gestazione. L’Lsd è stato introdotto in Cile nel 1959 da Lola e Franz Hoffmann nell’ambito di terapie di gruppo all’interno della Clinica Psichiatrica dell’Università del Cile diretta da Ignacio Matte Blanco. Junghiani eclettici e molto attivi, con la loro Scuola di Antropologia Medica hanno influenzato molti, oltre al giovane Claudio. E non parlo solo di ricercatori accademici come Maturana e Varela, con la loro scoperta dell’autopoiesi, o Rolando Toro con la biodanza.

Alla fine degli ’80 si è creata una fusione tra punk e psichedelia promossa dai giovanissimi “pinochetboys”, una fusion di teatro-danza, musica, performance, arte e poesia, che ha lasciato un segno permanente, oggi celebrata nel film documentario “Vicente Ruiz: A Tiempo Real” realizzato da Matías Cardone y Julio Jorquera. Ma in generale osservo una larga diffusione di gruppi che usano le medicine sacre in tutte le declinazioni, dalle più tradizionali, collegate al mondo sciamanico, a quelle di integrazione con la psicoterapia, con la meditazione, con l’arte, la musica. la scienza, o semplicemente collegate all’insorgenza esistenziale e anarchica della gioventù. Tutte queste linee convivono e formano una bella “nebulosa” psichedelica.

Chiaramente con questa breve carrellata non posso dare conto di tutto il contesto, ma spero di aver reso le motivazioni e lo sfondo che accompagnano la nostra conversazione.

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Ketamina: terapia psichedelica alla portata di (quasi) tutti?

KetaminaKetamine Therapy Is Going Mainstream. Are We Ready?“: questo il titolo-domanda di un’ampia indagine proposta nel primo numero dell’anno nuovo dal noto settimanale statunitense New Yorker.  L’articolo punta innanzitutto a dettagliare storia, usi ed esiti della psicoterapia a base di ketamina, già applicata in diverse cliniche e ambiti Usa. Senza tralasciare una serie di utili analisi ed opinioni sugli aspetti sociali, culturali e imprenditoriali del più ampio revival psichedelico in corso. Per chiudere con resoconti di esperienze dirette sul campo, fornendo così un’estesa panoramica d’attualità che merita la sintesi ragionata italiana (qui di seguito). Ricordando comunque che per saperne di più su utilizzi ricreativi e terapeutici, rischi e potenzialità di questo anestetico psichedelico, in italiano c’è il libro di Gianluca Toro pubblicato da Nautilus nell’estate 2020.

Si parte da una figura a dir poco controversa, lo psichiatra messicano Salvador Roquet, il quale fin dagli anni Sessanta applicava terapie di gruppo appositamente mirate a creare un “forte sovraccarico sensoriale” in pazienti affetti da turbe psicotiche, per stimolarne una supposta rinascita psico-spirituale. Nel corso di sessioni ininterrotte di 8-9 ore a costoro venivano somministrate man mano svariate sostanze psichedeliche (dai funghetti alla datura al peyote), accompagnate da video porno e sanguinosi, assordante musica rock e sonorità cacofoniche di varia natura.

Si trattava insomma di vere e proprie “calate all’inferno”, dai risultati parimenti dubbi e controversi, e che oggi vengono fortemente criticate dalla stessa comunità psichedelica. Inclusi episodi di tecniche di controllo mentale, abusi sessuali e finanche torture ai danni dei pazienti applicate senza problemi dallo stesso Roquet. Il quale viene comunque indicato come uno dei propri “maestri” da esperti di spicco dell’odierno movimento enteogeno, tra cui Francoise Bourzat (e il marito Aharon Grossbard), formatasi con Pablo Sanchez, terapista psichedelico underground che ha ripreso le tecniche di Roquet dopo la sua morte nel 1995. (L’articolo del New Yorker non cita queste appendici, ma tali dettagli sono esposti in recenti interventi online, nel contesto di manipolazioni e abusi emersi nella terapia psichedelica, anche perché pur sempre illecita, e vengono ulteriormente discussi in PowerTrip, podcast periodico curato dal team di Psymposia).

Tornando alle sperimentazioni di Roquet, costui somministrava ketamina a chiusura di quelle esperienze convulse, proprio per le sue proprietà calmanti e introspettive. Per lo stesso motivo venne poi impiegata nel training dei futuri terapeuti psichedelici: è il caso di Stanislav Grof che la descrive come «la sostanza psicoattiva più strana mai provata in 50 anni di ricerche sulla consapevolezza» (nell’antologia Ketamine Papers del 2016). Proprietà ritenute valide ancor’oggi, con trattamenti offerti in varie cliniche ad hoc attive soprattutto in Usa e in altri ambiti (si veda più avanti). Ciò anche perché, mentre nei primi anni ’70 gli psichedelici finirono nella Tabella I delle sostanze illecite, la ketamina ottenne l’approvazione della FDA come anestetico e tale rimane pur se con alcune restrizioni. (Continua qui.)

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