Articolo a cura di Fab S.*
Dopo la cannabis, l’ecstasy è tra le sostanze più usate per scopi ricreazionali, soprattutto nei rave ed altri eventi di massa giovanili [1]. Nella comune versione “da strada”, queste coloratissime pastiglie contengono metilen-diossi-metamfetamina, o MDMA , oltre ad eventuali sostanze additive la cui natura sfugge a qualsiasi controllo. Ne risulta un senso di vitalità, di euforia, e di amore cosmico in grado di amplificare a dismisura l’esperienza di un rave.
Effetti questi dovuti in parte alla sua interferenza con la trasmissione serotonergica, tale da provocare un massivo rilascio di serotonina (il cosiddetto neurotrasmettitore del benessere) ed una sua maggiore permanenza nello spazio sinaptico [2,3,4]. Tuttavia, a ciò segue un effetto di rebound dovuto all’esaurimento della riserva di serotonina. Da un lato, al sabato sera, l’MDMA provoca un’esperienza di estremo benessere dovuto all’aumento dei livelli di serotonina; dall’altro, la deplezione di serotonina dal tessuto cerebrale è responsabile di un effetto diametralmente opposto che caratterizza i giorni successivi: si tratta della cosiddetta “depressione infrasettimanale” [2,3,4].
Negli ultimi anni sono anche cresciuti interesse e ricerche il potenziale utilizzo in psicoterapia, proprio in virtù del fatto che l’MDMA sembra favorire “l’apertura verso gli altri” [5,6,7]. Tale possibilità, inizialmente (ri)proposta dal biochimico e farmacologo californiano Alexander Shulgin (1925-2014), è al centro del percorso clinico-procedurale avviato nel 2019 dalla non-profit MAPS (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies) per ottenerne la formale approvazione delle autorità sanitarie Usa come coadiuvante della psicoterapia, oggi giunto alla sua terza e ultima fase. Iniziativa questa tra le prime a rilanciare su grande scala l’interesse scientifico verso i potenziali usi terapeutici degli psichedelici. Nello specifico, è stato riscontrato come l’MDMA sia un ottimo candidato per la terapia del disturbo da stress post-traumatico (PTSD nell’acronimo inglese), ed in generale come coadiuvante alla terapia di quelle patologie psichiatriche che scaturiscono da esperienze traumatiche.
Per la sua capacità di favorire un approccio positivo verso il mondo, l’MDMA sembra un eccellente candidato per la terapia del PTSD, in quanto consentirebbe ridurre la paura associata al confronto con il ricordo traumatico, facilitando così il percorso di psicoterapia [5,6,7]. Inoltre, essendo in grado di favorire l’estroversione ed i comportamenti prosociali (probabilmente mediati da un aumento dei livelli di ossitocina, l’ormone dell’accudimento [8]), l’MDMA migliorerebbe anche il rapporto con il terapeuta, laddove il PTSD è spesso caratterizzato da una difficoltà nelle interazioni sociali [5,6,7]. Alla luce di ciò, è stato addirittura proposto che l’MDMA possa migliorare le capacità empatiche delle persone affette da autismo, le quali hanno notoriamente difficoltà nel provare empatia [6]. [Continua qui]