Ricordando Marco Margnelli, fondatore della SISSC

Marco MargnelliObiettivo di questa lunga intervista, realizzata molti anni fa in tre puntate e riproposta in integrale qui di seguito, è quello di offrire una panoramica sintetica sui modelli degli stati di coscienza da parte di quel grande esperto, studioso, ricercatore e amico che era Marco Margnelli (1939-2005), prematuramente mancato nel febbraio di 16 anni fa.

Neurofisiologo e psicoterapeuta milanese, Marco Margnelli era anche ricercatore presso il Cnr, il Karl Ludwig Institut fur physiologie dell’Università di Lipsia e l’Università del North Carolina, nonché fondatore e presidente iniziale della Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza (SISSC), al cui trentennale è stata dedicata un’apposita sezione nel corso degli Stati Generali della Psichedelia 2020.

Questa ripubblicazione vuole essere innanzitutto un tributo alla memoria di Marco, nell’imminente anniversario della sua scomparsa. Ed è anche l’occasione per una riflessione sulla sua interessante ricerca in cui parla di modelli, cartografie, ipnosi, sogni lucidi e altro ancora. Purtroppo mi è mancata l’opportunità di ascoltare Marco in quella che già qui preannunciava essere la sua sintesi finale sugli stati non ordinari di coscienza, relativa alla “Chiara Luce del Vuoto”. Non c’è stato tempo per  “parlarne un’altra volta”, mi spiace molto….

Il testo qui di seguito raccoglie le tre interviste pubblicate sui numeri 3 (dicembre 1998), 4 (aprile 1999) e 7 (giugno 2000) del Bollettino annuale della SISSC, nella serie curata da me in quegli anni.

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INTERVISTA A MARCO MARGNELLI

Mario: Quando è nato il tuo interesse per gli stati di coscienza?
Marco: Per quanto curioso possa sembrare, ho un ricordo molto preciso sulla nascita di questo interesse. Un giorno stavo facendo delle fotocopie di alcuni testi sull’estasi scritti da teologi e mentre li leggevo qua e là mi colpì il fatto che non veniva mai fatto cenno all’aspetto “scientifico” del fenomeno. Tutt’al più veniva affrontato il problema delle allucinazioni o della possibilità che gli estatici fossero degli schizofrenici, una trattazione abituale in questi scritti che mi ha spesso irritato, sia perché non è possibile restare fermi su un concetto per due secoli, quando il sapere scientifico è contemporaneamente evoluto in modo vertiginoso, sia perché tutti i teologi hanno sotto gli occhi un grande numero di biografie esemplari di mistici-estatici che si sono dimostrati tutto tranne che schizofrenici. Ma quel giorno, mentre facevo le fotocopie, “decisi” che ne avevo abbastanza, che l’estasi era uno stato di coscienza e che sarebbe valsa la pena di dimostrarlo sperimentalmente. Allora avevo circa 35 anni e lavoravo come ricercatore in un istituto (Istituto di Fisiologia dei Centri Nervosi) del Consiglio Nazionale delle Ricerche e perciò avevo dimestichezza con il modo di pensare degli scienziati e con i metodi della ricerca scientifica. Mi scandalizzava che i teologi disquisissero di allucinazioni e di schizofrenia orecchiando le interpretazioni degli psichiatri e rimaneggiando luoghi comuni scientifici di autori che di mistica non ne sapevano nulla. Mi irritava il fatto che i teologi non utilizzassero i fatti concreti e cioè la testistica psicodiagnostica (non si può, oggi, sostenere un sospetto di malattia mentale se non si sono fatti gli opportuni test) oppure il criterio epicritico sulle vite dei presunti allucinati/schizofrenici, e cioè il fatto che molti estatici erano/sono stati grandi imprenditori, acuti scrittori o “politici” formidabili, ciò che molto raramente accade agli ospiti dei manicomi. Ma soprattutto mi irritava l’atteggiamento degli “esperti” dai quali i teologi orecchiavano le loro trattazioni, degli psichiatri o degli psicoanalisti che pontificavano paragoni e confronti tra deliri patologici ed esperienze estatiche, tra menti sane e menti malate senza mai avere visto un estatico da vicino o aver studiato una vera estasi. Di queste idiozie sono strapieni tutti i trattati di psichiatria e ho cercato invano, per anni, qualcuno che non si accodasse passivamente a questi luoghi comuni e avesse deciso di affrontare l’argomento in modo scientifico e non ideologico. Insomma, il mio interesse per gli stati di coscienza è nato dalla rabbia, da una fotocopiatrice e dal fatto che ero un fisiologo e non uno psichiatra.

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Gli effetti psicoattivi dell’artemisia?

Assenzio maggioreL’assenzio maggiore (Artemisia absinthium) è un’erbacea appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Dedicato alle dee Artemide e Diana, nell’Antica Roma veniva considerato un erba protettrice e profetica in tutto il mondo antico; i soldati romani lo mettevano dentro i sandali per andare più veloci e per resistere più a lungo durante le marce. In Cina e Giappone veniva tenuto sugli usci per allontanare i malanni e gli spiriti maligni; stesso uso ebbe nell’Europa medievale dove veniva ritenuto un dono fatto dai tritoni all’umanità. E’ stato anche l’ingrediente principale della birra prima dell’avvento del luppolo e veniva fumato come tabacco dai marinai.

In Sicilia gli anziani facevano lo stesso con l’Artemisia arborescens, una pianta molto vicina all’absinthium. Nel 1792 il medico francese Henry Louis Pernod creò la ricetta del famoso liquore omonimo, riprendendo quella di un medico svizzero, denominato “assenzio come rimedio fitoterapico”. Il distillato venne poi bandito nel corso del XX secolo in diversi stati degli USA per via del suo potenziale allucinogeno che si imputava al tujone, un terpenoide presente nell’artemisia.

In realtà non era il tujone a causare gli effetti psicoattivi e i danni cerebrali, ma l’alcol. Bisogna infatti considerare che l’artemisia non era l’unico ingrediente della bevanda ma veniva fatta macerare insieme a melissa, issopo, angelica, anice stellato, dittamo di Creta, ginepro, noce moscata, veronica, semi di anice  e di finocchio. Quindi il menstruum veniva distillato riducendo ulteriormente il contenuto di tujone.

Gli effetti psicoattivi dell’artemisia stessa non sono dovuti solo al tujone, ma anche a molti altri terpenoidi e composti aromatici presenti nel ricco fitocomplesso della pianta tra cui acido rosmarinico, canfora, mircene, linalolo, etc.

Gli estratti di Artemisia absinthium sono potenti attivatori dei recettori muscarinici e nicotinici (IC50 <1mg/ml), con un azione comparabile a quella del cloridrato di carbamilmetilcolina.  Come altri agenti colinergici sono molto efficaci nello stimolare l’attività onirica e la memoria al risveglio.

Sono in molti ancora a credere che il tujone abbia effetti simili al THC per via della somiglianza strutturale, l’affinità per i recettori dei cannabinoidi è insufficiente ad avocare effetti psicotropi. Studi sugli animali dimostrano che agisce come inibitore del recettore GABA-A causando eccitazione in base alla dose. Infatti solo oltre una certa soglia diventa neurotossico e può causare convulsioni ed altri sintomi importanti, al contrario i dosaggi medio-bassi sono neuroprotettivi.

[ Qui l’articolo completo con magggiori dettagli ]

Antropologi occidentali tra ayahuasca e sciamanesimo

Amselle+NarbyProsegue la bonanza di libri italiani su temi variamente legati alla psichedelia (raggruppati sotto la categoria MindBooks). Stavolta si tratta di Psicotropici: La febbre dell’ayahuasca nella foresta amazzonica, dell’antropologo francese  Jean-Loup Amselle, direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, pubblicato da Meltemi Editore. Ne parla in un ampio intervento su Carmilla lo psichiatra Piero Cipriano. Il quale stronca senza mezzi termini l’approccio di Amselle:

Il mio giudizio è severo perché negli ultimi decenni, in cui tutti i mondi da scoprire sono stati scoperti, e l’unico mondo inesplorato è quello che puoi vedere solo se entri in un altro stato di coscienza, un antropologo che (pur occupandosi di sciamani e di ayahuasca) ha l’ossessione della sobrietà, il culto, la venerazione dello stato di coscienza ordinario, e non si affaccia neppure una volta una soltanto dico una nell’altro mondo, nel mondo dove ci sono gli spiriti (direbbero gli sciamani) oppure ci sono i morti oppure i demoni e gli dei, che antropologo può mai essere? Che saggio su sciamani amazzonici e ayahuasca potrà mai scrivere? Un libro scritto da un voyer, uno che sta al di qua, a guardare a studiare da fuori i vari “attori della filiera sciamanica”, come li chiama, per osservare da fuori ciò che ha timore di vedere da dentro. Come uno che, invece di scopare in prima persona, guarda gli altri mentre sono intenti a… bere l’ayahuasca. Cosa potrà mai capirci?

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La Calea Zacatechichi

Calea ternifoliaLa Calea Zacatechichi (Calea ternifolia), nota anche come erba del sogno messicana, erba amara o foglia di Dio, costituisce probabilmente l’oneirogeno tradizionale più famoso. È una pianta della famiglia delle Asteraceae, usata soprattutto dagli indigeni Chontal, dello stato messicano di Oaxaca, per la oniromanzia, tecnica divinatoria basata sui sogni.

La pianta viene impiegata da sempre anche per il trattamento di diversi disturbi tra cui disordini intestinali, febbre, mancanza d’appetito, dissenteria e diabete. La farmacologia di questa pianta non è ancora stata del tutto compresa, ma si sa che è ricca di lattoni sesquiterpenici, composti amari in comune anche con altre piante oneirogene come l’artemisia.

Uno studio in-vitro sembra però contraddire l’alto profilo di sicurezza di cui da sempre gode, comparandola a un noto agente chemioterapico. Ricordiamoci che questa pianta viene consumata giornalmente per lunghi periodi a dosaggi anche alti senza particolari accortezze, infatti diversi onironauti sono rimasti spaventati dalle rivelazioni di questa ricerca.

Tuttavia il lavoro, come spiegano anche gli autori, non è affatto conclusivo e si scontra con delle analisi successive effettuate in-vivo da un altro team.

Casi del genere sono comuni per altre specie relativamente molto sicure come ad esempio la borragine, i composti tossici sono presenti a concentrazioni molto basse e vengono bilanciati da altri elementi presenti nel fitocomplesso.

Qui il testo integrale dell’articolo.

Una riflessione sulla Ierà Odòs eleusina

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione di Andrea Orsini* da Tunquén, in Cile, a margine dell’intervento tenuto da Riccardo Zerbetto agli Stati Generali della Psichedelia 2019 sul tema della Via Eleusina e delle origini dello sciamanesimo europeo, proposto qui pochi giorni fa.

La bella relazione di Riccardo Zerbetto su Eleusi mi spinge verso riflessioni e ricordi concatenati. La via sacra, la Ierà Odòs che da Atene portava al santuario di Eleusi implica anche una via inversa. Un riflusso da quel luogo di profondo e inesprimibile contatto con la vita, un contro-movimento verso Atene, che per Giorgio Colli segna la nascita della filosofia. Nei primi anni’80 la buona sorte mi aveva portato a intense esperienze con l’LSD nel contesto protettivo e favorevole del teatro di ricerca, dove ero impegnato a tempo pieno. Mi resi subito conto delle implicazioni culturali di quelle esperienze.

In assenza di guide o maestri, guardavo la foto del cileno Claudio Naranjo sul libro di Peter Stafford [Psychedelic Enciclopedia, Ronin Publishing, 1978] edito in Italia da Cesco Ciapanna come alla traccia di un mondo lontano. Quindi mi misi a studiare filosofia e antropologia, senza incontrare le risposte che cercavo, se non in parte negli studi orientali. Qualche anno dopo incontrai Alessandro Fersen per un colloquio di lavoro. Fui assunto come segretario e assistente. Non sapevo che a Colli lo legasse una fratellanza, che dai tempi della guerra si è estesa per decenni, con incontri regolari in un bar di Firenze. Uno veniva da Roma e l’altro da Pisa. Oggetto di questi incontri: una riflessione sulla Ierà Odòn eleusina, per le due direzioni.

Fersen, genovese, laureato in filosofia con Rensi negli anni ’30, dedicatosi al teatro nel dopoguerra, regista e saggista, aveva fondato una suola per attori che è stata tra le più importanti in Italia. La sua vera passione, sulle orme di Nietzsche, era la Grecia classica. Conosceva a memoria la tragedia senza traduzione. Non per un’aspirazione formale o estetica. Voleva andare oltre i testi, tornare alle origini, a quei misteri dove vedeva il punto sorgivo della cultura, l’avvento delle mitopoiesi. Su queste basi elaborò un metodo per esplorare gli stati non ordinari di coscienza, che chiamò mnemodramma. Gli studenti della sua scuola (a lato dei corsi di dizione, recitazione e movimento) potevano anche partecipare al laboratorio di mnemodramma del lunedì.

Per anni ho accompagnato questo originale ricercatore nelle sedute e discusso sulle esperienze a fine giornata. L’essenza di questo metodo può essere definita “via negativa”. Un percorso di “spoliazione e discesa” verso quei luoghi dell’interiorità dove contenuti rimossi si riattualizzano con rinnovato e riconquistato senso. Già molto anziano, Alessandro sopportava con pazienza le mie critiche. Accettavo ovviamente l’essenza della cosa, il viaggio interiore, il cerchio di protezione, la riconnessione delle anime alla propria vocazione “culturale”, nel senso antropologico del termine. Ma insistevo sull’utilità dei catalizzatori psichedelici per accelerare e approfondire questi processi. Lui diffidava della scorciatoia del farmaco. Poteva permetterselo perché la droga era lui stesso, con la sua straordinaria capacità di indurre stati di trance.

Oggi, scrivendo queste righe di commento alla relazione di Zerbetto, per gentile invito di Alessandro Novazio, rifugiato sulla scogliera cilena dall’onda dilagante della pandemia, mi sento di condividere queste riflessioni su quanto ho appreso dai miei due maestri, che hanno dedicato la loro vita a Eleusi.

Fersen mi ha insegnato che per andare da Atene al santuario bisogna spogliarsi di ogni aspettativa, premeditazione, tecnica, filosofia, psicologia o scienza. Colli si è occupato del ritorno dal santuario alla città. Taglia corto Colli, le filosofie del soggetto sono un equivoco fuorviante. La filosofia classica è filosofia dell’oggetto. “Se stiamo parlando di qualcosa stiamo parlando di un oggetto”. Se il “contatto” appartiene al mistero, appena fuori dal recinto di Eleusi il discorso conseguente non potrà che essere logico e dialettico. Un programma che vedeva rispecchiato nei presocratici, Eraclito, Parmenide e Zenone. “L’intelligenza greca è congiunta alla vita sorgiva, pur nelle sue estreme astrazioni. Il cammino tra sensazioni e concetti è continuo, senza spezzature…”.

In questo senso la filosofia critica è al servizio della verità, che appartiene soltanto all’esperienza. E soltanto con questa coerenza sfugge al pericolo di un vuoto nichilismo, intellettuale o mercantile. In oriente il buddhismo di Nagarjuna si è espresso sulla stessa linea. Il tema è quanto mai attuale e politico. Siamo in un mondo preda di vecchi e nuovi “assuntori di potere”, ovvero di quei “fantasmi usurpatori” descritti da Max Stirner e da Nietzsche, che lavorano incessantemente per imporci simulacri del “reale”, lo stato, la religione, la scienza, il sesso di gomma o qualsiasi altro oggetto di marketing, con l’oscuro fine di espropriarci dal nostro diritto naturale all’autoconoscenza.

Sono passati oltre trent’anni da queste frequentazioni, conservo il ricordo della freschezza e del coraggio di questi autori, ma, forse proprio grazie a loro, ritengo che la complessità di questa materia non sia riducibile a nessuno schema. Non c’è un netto andare all’esperienza e un netto ritornare, un puro solvere e un puro coagulare. La vita è un processo dinamico che si auto-rivela nel punto di equilibrio tra emozione e forma, o tra esperienza e pensiero, sempre compresenti. Una buona filosofia può funzionare da “vaccino” contro le sclerosi che ostacolano tale processo. Ancora più vicini a Eleusi saremo fluendo nell’Arte di ruotare, o danzare, intorno a quel centro segreto, luminoso e ineffabile che portiamo in noi stessi.

* Andrea Orsini (Roma, 1960) ha studiato antropologia e filosofia (Università La Sapienza, Roma). Ha lavorato nel teatro di ricerca con il Teatro dell’IRAA come associato e con Alessandro Fersen come assistente. Focalizza i suoi studi sulle tecniche del corpo e gli stati coscienza. Nel 1983 apprende il Tai Chi da Peter Yang conservandone la pratica. Dal 1990 si è dedicato al design di oggetti d’uso e materiali per l’architettura, integrando operazioni artistiche con progetti d’impresa. Dal 2015 si occupa di progetti olistici orientati alle relazioni tra corpo, colore, suono e medicina.

Ketamina: un anestetico psichedelico

Ketamina, un anestetico psichedelicoÈ questo il titolo di un volume fresco di stampa curato da Gianluca Toro per Nautilus (190 pagine, 13 euro). Si tratta di un excursus a tutto campo che parte dalla prima sintesi della sostanza, dovuta al chimico C.L. Stevens, consulente della Parke-Davis nel 1962. Tre anni dopo la ketamina era già considerata un anestetico generale piuttosto sicuro e maneggevole, meno tossica, ad azione piú rapida e con effetti psicoattivi meno pronunciati rispetto alla fenciclidina (PCP). Produce la cosiddetta “anestesia dissociativa”, in riferimento a una disconnessione della coscienza dal corpo e dall’ambiente circostante.

Le dosi psichedeliche (subanestetiche), emerse con l’avvento della cultura dance e dei rave party degli anni ’80, corrispondono al 10-25% di quelle usate in chirurgia come anestetico. Le dosi basse sono adatte per un uso ricreazionale in cui si può mantenere un maggiore controllo dell’esperienza e del corpo e la capacità di muoversi, ballare e parlare, oltre che una migliore percezione e interazione con l’ambiente circostante, un certo senso di identità e la memoria, mentre quelle alte sono riservate a un uso psiconautico in cui si può giungere a uno stato di incoscienza.

Se ne possono comunque distinguere diversi usi, ovvero ricreazionale, psiconautico, medico e psicoterapeutico. Quest’ultimo si sta mostrando molto promettente, in particolare per il trattamento della depressione, della dipendenza da sostanze di abuso (come alcol, benzodiazepine, barbiturici, eroina e cocaina), di disordini nevrotici e del disordine da stress post-traumatico.  Dai metodi di consumo e dosi alle combinazioni con altre sostanze, passando per la farmacologia, i modelli di consumo, i campi di impiego e i resoconti di esperienze, il testo di Gianluca Toro offre le informazioni essenziali su questa sostanza per evidenziarne i rischi e le potenzialità, soprattutto in campo psicoterapeutico.

Particolare importante: Non essendo inclusa nella Tabella I delle sostanze proibite, la ketamina viene spesso prescritta contro dolori cronici e nervosi (soprattutto le cefalee). E la ricerca è andata avanti senza particolari intoppi, tant’è che negli ultimi anni nel Regno Unito e in Usa è stata sperimentata per vari disturbi mentali, soprattutto per la depressione e disordine bipolare con risultati incoraggianti. Nel marzo 2019, la FDA statunitense ha approvato uno spray nasale specifico per la depressione basato sulla sostanza, noto come Esketamina – prescrivibile solo a chi ha provato due o più antidepressivi senza successo e sotto la supervisione di un centro di recupero. Invece a Toronto, in Canada, è stata appena aperta la prima clinica per la depressione, Field Trip, dove il trattamento integra una microdose di ketamina con la psicoterapia, con succursali previste in tarda estate a Los Angeles e New York. Ogni sessione, della durata di circa due ore, costa tra i 200 e i 400 dollari, e generalmente non è coperta dalle assicurazioni sanitarie private.

Kanna e mesembrina

Piantina di Sceletium emarcidumQuesta ricerca dettaglia tutto quello che sappiamo riguardo al “kanna” (Sceletium emarcidum o tortuosum), nome assegnato dai nativi sud-africani a una pianta succulenta della famiglia Aizoaceae, usata tradizionalmene soprattutto come euforizzante e intossicante. Il nome è lo stesso assegnato all’antilope alcina (Taurotragus oryx Pallas), animale sacro associato alla trance e ha un ruolo chiave come guida nella cerimonie e nelle danze rituali, dove veniva consumata anche la pianta.

Tra i nativi, oltre che come euforizzante e intossicante, si impiega a dosaggi ridotti anche come ansiolitico, calmante, analgesico, sonnifero, antiasmatico, per il trattamento di indigestioni, disturbi gastrici o della dipendenza da alcolici e per favorire una certa apertura mentale. Il kanna viene consumata anche durante il parto per limitare dolore, nausea, disturbi gastrici e costipazione e favorire la contrazione dell’utero. Nei bambini piccole dosi venivano infuse nel latte materno o nel grasso di pecora per favorire il riposo e combattere le coliche infantili.

Peter Floris, luogotenente del vascello inglese The Globe fu il primo occidentale a scrivere sul kanna nel 1610, identificandolo come radice di Ningimm, Una corruzione del nome vernacolare usato per ginseng. Infatti la pianta era estremamente preziosa ed ambita da mercanti olandesi e giapponesi (i primi a scoprirne il valore), una sorta di ginseng di Città del Capo. L’inglese aggiunse che il periodo giusto per la raccolta era compreso tra dicembre, gennaio e febbraio e che i locali la chiamavano “Canna”. Nel 1625 il chierico inglese Samuel Purchas riportò che la pianta era molto richiesta in Giappone per le sue proprietà medicinali, notò inoltre che diventasse tenera e dolce come i semi di anice quando matura.

Nonostante sia presente da molto tempo tra i cosiddetti “herbal highs”, non c’è nessun rapporto che attesti un possibile meccanismo di assuefazione o dipendenza indotto dal kanna. Anzi sono molti quelli che documentano le proprietà utili nel trattamento di diverse tossicodipendenze. Studi tossicologici hanno individuato il NAOEL, la dose massima prima della comparsa di effetti tossici sopra i 5.000mg/kg (in un modello di somministrazione ripetuta per 14 giorni). I risultati confermano i test precedenti effettuati su cani e gatti, il kanna risulta sicuro in modelli acuti e cronici anche a dosaggi medicinali relativamente alti.

Ovviamente il governo ha voluto bandire la mesembrina, un alcaloide del complesso (che a quanto sembra non è neanche il vero responsabile del potenziale narcotico ed ipnotico e manca nella maggior parte del kanna costituito dallo Sceletium emarcidum), come se fosse una minaccia per la nostra società ignorando al solito una miriade di evidenze scientifiche.

Qui il testo integrale della ricerca.

Amanita muscaria come potente antidepressivo?

Amanita muscaria“Ovulo malefico, un fungo che nel nostro immaginario è penetrato profondamente per mezzo delle fiabe, e che – a causa delle stesse fiabe e di varie leggende popolari è considerato altamente velenoso – si appresta oggi a diventare oggetto di studio in virtù delle sue proprietà psicoattive, che stanno autorizzando due ricercatori ad avviare degli approfondimenti scientifici per valutarne i possibili impieghi terapeutici, tra cui spiccano le potenzialità antidepressive e quelle di coadiuvante per combattere le dipendenze.” Apre così un ampio articolo firmato da Federico di Vita su Esquire Italia che analizza in dettaglio le potenzialità nascoste dell’Amanita muscaria.

E il bello è che per una volta trattasi di una ricerca scientifica di stampo tutto italiano, dovuta a Gianluca Toro, chimico specializzato nel campo ambientale, e Alessandro Novazio, coordinatore della nostra rete Psy*Co*Re. I quali rispondono a una serie di domande onde puntualizzare la situazione: “Considerando l’antico uso di questo fungo e quanto riportato in letteratura, l’Amanita muscaria mostra punti di contatto con i più noti funghi psicoattivi del genere Psilocybe, oggi al centro di diversi studi e dell’attenzione mediatica internazionale.”

Fra l’altro, si chiarisce una volta per tutte una certa mitologia ai danni di questo esemplare:

L’Amanita muscaria può essere considerata un fungo psicoattivo, ovvero in generale con azione sui processi mentali, che può mostrare anche effetti psichedelici oltre che più genericamente inebrianti. Gli psichedelici inducono effetti quali intensificazione delle percezioni sensoriali, modificazione della percezione di spazio e tempo, percezione di spazi multidimensionali, illusioni, stati oniroidi e visionari, allucinazioni, modificazione della percezione del proprio corpo e dell’Io, maggiore tendenza all’associazione di idee e al pensiero analogico, stimolazione linguistica e semantica e stati emotivi, introspettivi, meditativi, intuitivi, rivelatori, creativi ed estatici.

Da notare inoltre l’attuale apertura a livello legale che offre appigli pro-positivi per la ricerca scientifica:

Perché non è vietata la ricerca in Italia su questo fungo, a differenza di altri?
“Non è vietata la ricerca perché non è vietata la sostanza. Piuttosto bisognerebbe domandarsi perché nessuno finora ha pensato che potesse essere oggetto di ricerca. È una domanda che ci siamo posti ma non ha una risposta precisa. Forse si tratta di una ‘svista’ causata da un pregiudizio di fondo. Popolarmente l’Amanita muscaria è chiamata ‘ovulo malefico’ e si dice che sia addirittura “mortale” quando invece il Mistero della Salute nella sua guida alle intossicazioni da funghi lo inserisce tra quelli a basso rischio di mortalità. La cattiva fama poi aiuta a mantenerlo legale e permette oggi di intraprendere liberamente una ricerca clinica senza i limiti che opprimono altre ricerche, come quella con i funghi psilocibinici”.

Senza dimenticare infine le proposte sonore innescate dal fly agaric, in una diretta radio di qualche giorno fa intitolata Veleno-Amanita Muscaria.

[Qui l’articolo integrale su Esquire Italia].

Il mainstream ci (ri)prova con gli psichedelici

Psichedelia Oggi“Solitudine, incertezza e angoscia dovuti alla pandemia possono intensificare una crisi mentale già acuta, e in Usa si registra un +20% nelle ricette per ansiolitici e antidepressivi durante la quarantena. Nel Regno Unito la domanda per questi medicinali minaccia di superare l’offerta, dopo aver già registrato oltre il doppio di prescrizioni mediche nell’ultimo decennio”.

Così apre sul Guardian un articolo di Robin Carhart-Harris, responsabile del Centre for Psychedelic Research all’Imperial College di Londra e da 15 anni in prima fila nella ricerca sull’uso terapeutico degli allucinogeni, in particolare la psilocibina per casi di depressione cronica e/o resistente ad altri trattamenti. Il quale prosegue spiegando che i tipici antidepressivi SSRI (gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) spesso sono soltanto dei pallativi e provocano pesanti effetti collaterali, mentre la terapia psichedelica offre un pacchetto ben più articolato ed efficace.

Segnalando poi il referendum previsto a novembre in Oregon per avviare servizi medici basati sulla psilocibina come utile strumento anche per unificare il variegato fronte psichedelico, Carhart-Harris ricorda lo “stigma che colpisce tuttora sia queste sostanze che la salute mentale”. E chiude sottolineando che queste terapie possono offrirci le stesse importanti lezioni emerse per molti durante la quarantena: “espansione della coscienza e ritmi di vita rallentati, contemplazione della propria e altrui impermanenza, apprezzamento per cura, amore e vita”.

Un sentito e qualificato invito a spingere gli enteogeni verso il mainstream, a partire proprio dalle applicazioni delle ultime indagini scientifiche. È quanto conferma un recente intervento su Science Times che sintetizza i risultati di test clinici con i “funghetti magici”. La psilocibina ivi contenuta sembra innescare bassi livelli di glutammato nell’ippocampo, portando così alla dissoluzione dell’ego in senso altruistico e positivo. Da qui le ulteriori potenzialità nel trattamento di disturbi mentali caratterizzati dalla distorsione dell’esperienza del sé. Promesse che diventeranno realtà “quando gli esperti potranno comprendere e conoscere meglio il modo in cui queste sostanze operano a livello neurochimico”.

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