Continua ad espandersi anche in Italia l’attenzione verso la psichedelia e gli stati non ordinari di coscienza in senso lato, particolarmente in ambito editoriale, a conferma di un’ondata del tutto inedita già segnalata di recente. Stavolta è il turno di un’opera originale curata da Tania Re, psicoterapeuta gestaltista specializzata in Antropologia della Salute ed Etnomedicina. Il suo Stupefacenti e proibite: le piante maestre, fresco di stampa presso le edizioni Amrita di Torino, offre un contributo puntuale lungo questo percorso di ampio respiro.
Una delle tesi centrali del libro è quella rimarcare come, in molte regioni del mondo, da tempo immemorabile gli esseri umani hanno appreso e condiviso le proprietà curative delle piante “di conoscenza” e continuano a farne un uso accorto ancor’oggi: tabacco, coca, oppio, ma anche sostanze di derivazione vegetale come psilocibina e ibogaina. Invece da oltre mezzo secolo i governi occidentali hanno deciso di bollarle come “droghe”, ovviamente illecite, criminalizzandone gli utenti e bloccandone di fatto la ricerca con ricadute negative per la società tutta.
Dobbiamo quindi smettere di demonizzare tali piante e sostanze, per impegnarci piuttosto a studiarne e informarne sugli aspetti e sulle potenzialità, oltre che a sperimentarne gli effetti in prima persona nei contesti e modalità opportuni. Va cioè affermata la libertà di scelta terapeutica e la ripresa degli studi scientifici in materia, avviata da qualche anno soprattutto nel mondo anglosassone, ma anche in Spagna, Olanda, Repubblica Ceca, Israele, Svizzera.
C’è poi un altro punto cruciale che affiora ripetutamente: sono le “piante maestre” ad aprirci le porte a quella parte di realtà a cui non si può accedere da uno stato “ordinario”. Non a caso, per alcuni popoli tradizionali, la “vera” vita è quella vissuta nel sogno, mentre la vita “reale” altro non è che un’ombra del sogno. Il tabacco, per esempio, è considerato la pianta che apre la mente, mentre l’ayahuasca è tradizionalmente riconosciuta essere quella che apre il cuore. Insieme, le due piante sono tra i principali “maestri della foresta” da cui poter trarre grandi insegnamenti.
Concezioni, o piuttosto “visioni”, che possono senz’altro aiutare l’umanità e che quindi meritano di essere valorizzate proprio all’interno del cosiddetto “progresso” occidentale, evitando però di puntare al profitto e/o di cannibalizzarle senza scrupoli. Ovvero:
Sradicare l’uso della pianta dal contesto curativo tradizionale si rivela una scelta pericolosa, come è avvenuto quando il tabacco, da pianta in uso per cerimonie collettive a beneficio della comunità, è diventato una maledizione collettiva.
Contesto e cerimonie da salvaguardare e rispettare per affermarne così i benefici complessivi. Lo ribadiscono le storie vissute dalla stessa autrice, oltre che da alcuni amici e colleghi (incluse nella prima sezione di ciascun capitolo) a riprova del concreto aiuto psico-terapeutico offerto dalla medicina tradizionale e naturale. A conferma non manca una panoramica sulle prime indagini scientifiche degli anni ’60 e soprattutto sul recente revival della medicina naturale e ancor più di quella psichedelica (pur se ancora illegale).
Questo tipo di panoramica interessa la seconda sezione di ogni capitolo, inframezzata da dettagli sulle rispettive proprietà botaniche e farmacologiche, sugli utilizzi terapeutici e sugli effetti psicotropi delle singole piante (o derivati) presi in esame. Interessante il capitolo 4, dedicato a “Le vie dell’estasi” promesse dalla cannabis e dall’oppio, dove si propone una rigorosa seppur confusa disamina storico-culturale e trova spazio anche “la papagna: la cura italiana con l’oppio”:
….alcuni fanno risalire l’apparizione della pianta nell’Italia Meridionale [risale] a 8000 anni fa, altri ancora parlano di oscuri preparati chiamati “eroine” apparsi nelle farmacie degli anni Venti. La papagna vera e propria, in quanto infuso tradizionale preparato in casa, è però un mistero che si va scoprendo via via tra paesini e villaggi del Salento.
Il percorso prosegue avventurandosi sul “sentiero Bwiti”: l’esperienza legata alla “visione di morte e rinascita” che ha luogo durante il rito con l’iboga in questa comunità dell’Africa subsahariana. Ambito in cui si segnala l’impegno del dottor Antonio Scarpa (1903-2000), al quale è tra l’altro dedicato il Museo di Etnomedicina nella facoltà di Scienze antropologiche dell’Università di Genova. Una buona sintesi dei suoi studi sul campo in 55 anni di attività è il volume Pratiche di Etnomedicina (1988). Non mancano le citazioni anche per Giorgio Samorini, uno dei primi occidentali a essere iniziato al culto Bwiti negli anni ’60, pur se relegate per lo più nelle note e nei rimandi alla ricca documentazione del suo sito web.
Analoghi riferimenti a professionisti nostrani emergono anche nel capitolo finale, dedicato invece alle sostanze di sintesi, cioè Mdma e Lsd. È il caso dello psichiatra Emilio Servadio (1904-1995): «….attratto dalle modificazioni della coscienza ordinaria prodotte dal sogno, dall’ipnosi, dalla trance, dalle pratiche yogiche o dall’assunzione di LSD. …. utilizzò la psilocibina e l’LSD sia per un ciclo di sperimentazioni personali, sia nell’ambito della ricerca parapsicologica, nonché all’interno del setting analitico».
Riferimenti questi importanti per ribadire che il nostro Paese non è stato (e non è), come sembrerebbe a prima vista, il fanalino di coda in questi campi di ricerca né dell’attuale impulso verso la rivisitazione delle scienze della mente in senso lato, psichedelia in primis. Forse proprio in questa sorta di “rivelazioni” per il pubblico generalista – insieme al rigoroso piglio scientifico, confermato dall’obbligatorio paragrafo di ciascun capitolo intitolato “Che cos’è e che cosa cura” – sta il merito maggiore del libro di Tania Re. Con gli aneddoti e i racconti personali ad arricchire le conoscenze di base sull’intero scenario delle “piante maestre”, come stimolo per chi vuole saperne di più e, perché no?, sperimentarle in prima persona con le opportune accortezze.
Dispiace solo notare una certa fretta in svariati passaggi descrittivi, soprattutto rispetto agli annessi scenari socio-culturali (liquidando, ad esempio, la controcultura a cavallo degli anni ’60-’70 come “cultura hippie”) e la necessità di una maggior cura redazionale per valorizzare la stesura di taglio divulgativo. Pur se, com’è ovvio e come chiude lo stesso capitolo introduttivo, il libro è dedicato non solo (o non tanto) agli “addetti ai lavori”, si tratta comunque di contributo stimolante per rilanciare questo tipo di informazione e ricerca anche nel nostro Paese. Non ultimo perché, citando un curandero amazzonico interpellato dall’autrice: «le piante mi hanno chiesto di aiutare l’umanità, e l’umanità è Una».