Ecco la video-registrazione integrale dell’evento del 28/3, Eleusi: ipotesi di uno sciamanesimo occidentale, con Riccardo Zerbetto e Massimiliano Palmisano.
Ecco la video-registrazione integrale dell’evento del 28/3, Eleusi: ipotesi di uno sciamanesimo occidentale, con Riccardo Zerbetto e Massimiliano Palmisano.
Non si sa con precisione quando il genere Psilocybe sia originato: in base a dei reperti fossili di Archaeomarasmius, un genere estinto, si stima che la presenza dell’ordine Agaricales risalga al Cretaceo medio [1].
Tuttavia data la struttura soffice degli agaricali che ne rallenta la fossilizzazione, alcuni autori ipotizzano possa essere antecedente a questo periodo.
La maggior parte degli archeologi non ritiene che i funghi psilocibinici abbiano avuto un qualche ruolo nella preistoria, le teorie riguardo ad un eventuale influsso sulle popolazioni del Vecchio Mondo sono molto controverse.
MESSICO
La maggior parte delle evidenze archeologiche sull’uso enteogenico degli Psilocybe sono tutte localizzate in Messico: una statua con le fattezze dello Psilocybe mexicana è stata ritrovata in una camera mortuaria di circa 1800 anni fa a Colima in Messico.
I funghi psilocibinici venivano ampiamente consumati dalle popolazioni della Mesoamerica a scopo religioso, divinatorio e curativo. Venivano chiamati dagli Aztechi teōnanācatl, fonghi divini; è riportata la loro presenza nella cerimonia dell’incoronazione di Moctezuma II nel 1502. Il missionario spagnolo Bernardino de Sahagùn ha notato il loro diffuso impiego rituale mentre accompagnava Cortes durante il suo viaggio in America Centrale. In uno dei suoi disegni si vede un nativo Nahuatl che mangia un fungo con riflessi bluetti [2], secondo alcuni autori si tratterebbe di Psilocybe caerulea.
Dopo la conquista Spagnola delle Americhe il loro consumo venne proibito insieme alle altre sostanze psicotrope naturali e riti tradizionali per permettere l’instaurazione della nuova religione cristiana [3]. Tuttavia in alcune zone l’usanza è sopravvissuta fino ai giorni nostri. Continua qui
Le ricadute legate al rampante interesse del mainstream per la medicina psichedelica continuano a tenere banco nella comunità internazionale. Mentre sostanze e pratiche vengono presentate al grande pubblico, spesso in maniera affrettata e superficiale, come la panacea per vari disturbi neuro-psichiatrici e come la necessaria svolta verso la corsa all’oro medico-psichedelico, non manca chi segnala piuttosto l’urgenza di un approccio più prudente, critico e articolato. È stavolta il caso di un’ampia analisi proposta su Salon.com da due esperti impegnati soprattutto nel campo delle terapie con l’ibogaina.
Con l’esplicito titolo di Perché i ricercatori studiano gli psichedelici in modo completamente sbagliato, Jonathan Dickinson e Dimitri Mugianis affrontano in dettaglio le lacune medico-scientifiche alla base di certe facili promesse di cura e ne mettono a nudo i vari aspetti controversi, concludendo che «l’industria della salute mentale non ha idea di cosa stia facendo con gli studi su queste sostanze».
Sotto accusa è innanzitutto il modello scelto per introdurre gli enteogeni nello scenario medico, trainato in primis dalla non-profit statunitense Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS) e mirato in particolare al trattamento del disturbo post traumatico da stress (meglio noto con l’acronimo inglese di PTSD). Aggiunta nel 1980 nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), la “Bibbia” della diagnostica psichiatrica da qualche tempo denunciato (e abbandonato) come “scientificamente insignificante” da buona parte degli stessi operatori.
Oggi il PTSD è divenuta una diagnosi sempre più comune (soprattutto in Usa), che oggi abbraccia reduci di guerra, vittime di assalti sessuali o di altri traumi, chi è affetto da stress acuto o risente degli effetti psicologici dell’emergenza Covid, e viene rapidamente riconosciuta come disabilità permanente dall’assistenza pensionistica. Senza ovviamente volerne negare gli effetti deleteri, è una condizione tanto medica quanto sociale che trova ampio spazio sui media generalisti. Portando a un quadro complessivo «perfetto per una campagna PR basata sugli psichedelici come prossima cura medica miracolosa» per far fronte al dilagare del PTSD.
Più in generale, il punto è che nell’ultimo mezzo secolo si è capito che, soprattutto in campo psichiatrico, raramente i sintomi sono indicativi dei veri distrubi in atto e dei trattamenti migliori, tesi su cui storicamente poggia(va) l’intero DSM. La scienza psichedelica, pur vantandosi di essere all’avanguardia, rimane invece ancorata a questi modelli antiquati e garantisce interventi super-mirati e perfino “miracolosi”.
È quanto sostengono, fra gli altri, il Dr. Bruce Levine, psicologo clinico, e Ross Ellenhorn, autore di How We Change (2020): ciò vuol dire colpevolizzare questi soggetti affinché trovino a tutti i costi una “cura” e innesca una pericolosa ipermedicalizzazione della salute mentale.
Va detto che i professionisti che gestiscono le odierne sperimentazioni cliniche, compresi i protocolli di Maps ufficialmente abbracciati dalle autorità Usa, sono generalmente persone competenti e compassionevoli. È però il contesto specifico alla base di tali sperimentazioni a rivelarsi fallace: la ricerca in quanto tale è finalizzata a inscatolare queste sostanze e i loro effetti all’interno dell’attuale sistema sanitario, tagliando fuori l’esperienza o il percorso individuale. Invece, chiarisce l’articolo:
Se gli psichedelici offrono qualche promessa, è perché non operano in maniera lineare né danno risultati nottetempo. L’esperienza psichedelica è alquanto espansiva. Può spingere i soggetti verso la crescita e l’auto-indagine personale che si estendono nello spazio e nel tempo, magari facendo emergere problematiche e introspezioni nuove che divengono un punto di riferimento anche per anni a venire.
Non manca il riferimento (in negativo) al cosidetto “effetto Pollan”: le aspettative poco realistiche diffusesi nel pubblico (e in molti addetti ai lavori, nuove aziende incluse) dell’esistenza di una “pillola magica psichedelica”, sulla scia del best-seller pluritradotto del giornalista californiano, How to Change Your Mind (2018). Effetto che sembra destinato ad ampliarsi, vista l’uscita a luglio 2021 del seguito, This is Your Mind on Plants, ampia indagine sugli effetti sulla nostra psiche di sostanze quali oppio, caffeina e mescalina.
Piuttosto, concludono gli autori del pezzo su Salon.com, le recenti depenalizzazioni (in alcune città Usa) di piante e sostanze enteogene appaiono propedeutiche alla diffusione di informazioni corrette e di pratiche di auto-cura, oltre a ridurre i rischi legali per quei praticanti che continuano a operare nell’underground. Questi ultimi potrebbero anzi decidere man mano di “uscire allo scoperto”, proponendosi pubblicamente come mentori e terapeutici al di fuori dell’establishment medico ufficiale ma capaci di offrire applicazioni più sfumate e articolate della medicina psichedelica.
Va tuttavia evitato, aggiungiamo noi, di contrapporre così nettamente questi ambiti: l'”effetto Pollan” può fare danni anche negli stessi ambienti underground. Una ricerca del 2017 basata su un sondaggio online (Bad Trip Survey) con più di 2000 soggetti partecipanti, ha rivelato che le esperienze traumatiche sono sorte soprattutto in simili situazioni non controllate e/o auto-gestite.
In un caso e nell’altro, occorre evitare scorciatoie e facili illusioni, insistendo a favore di prudenza e informazione, con grande attenzione a dose, set, setting, a livello personale, oltre al rispetto di importanti linee-guida etiche per le entità che operano variamente nel settore. E nella divulgazione per il grande pubblico, meglio puntare a un approccio più maturo – chiarendo al meglio potenzialità e sperimentazioni in corso, ma lasciando perdere entusiami immaginari o false promesse terapeutiche.
BOTANICA
Il genere Desmodium è polifiletico e comprende più di 250 specie diverse tra cui piante annuali, perenni e piccoli alberi distribuiti nelle regioni temperate e tropicali di entrambi gli emisferi, con un particolare concentrazione nel continente americano. La nomenclatura di questo genere è molto confusa e ancora controversa: alcuni autori lo considerano tutt’uno con i generi Codariocalyx, Hylodesmum, Lespedeza, Ohwia e Phyllodium. Gli errori di identificazione sono molto comuni, studi citologici hanno dimostrato una notevole variabilità nella lunghezza dei cromosomi delle varie specie [1].
Il Desmodium pulchellum syn Phyllodium pulchellum è un sottocespuglio eretto che cresce fino a 1,5m. Le foglie sono trifoliate, quelle piccole laterali presentano nella parte interna una sottile peluria, le grandi centrali sono lunghe fino a 13cm e larghe più del doppio rispetto alle altre. I delicati fiori bianchi vengono nascosti dalle foglie più piccole e sono distribuiti su delle infiorescenze lunghe fino a 25cm. I baccelli pelosi hanno una forma oblunga e sono uniti a gruppi di tre.
MEDICINA TRADIZIONALE
Nella regione di Assam si crede che tenere un ramo di desmodio vicino o sotto la casa possa allontanare le cimici dei letti [2]. Nella medicina ayurvedica il desmodio viene indicato per il trattamento piressia, emottisi, ascessi, epatite icterica, faringite, malnutrizione infantile, dissenteria, disturbi urinari, parotite, colecistite, malaria, encefalite epidemica ed altre affezioni [3]. I fiori di Desmodium pulchellum si masticano per combattere le carie e la sua corteccia si usa contro mal di testa e pressione alta. La radice si consuma per alleviare il bruciore addominale [4]. Il decotto delle foglie mischiato con una resina di fiori di Hibiscus viene consumato due volte al giorno per 3 giorni per controlla il flusso mestruale eccessivo [5]. La pianta è stata usata anche per il trattamento di schistosomiasi ed infezioni da trematodi epatici.
Diverse specie di Desmodium venivano utilizzate in Cina già 3000 anni fa per abbassare la temperatura interna e la febbre, neutralizzare le tossine, stimolare la circolazione e la produzione di nuove cellule sanguigne, alleviare dolore, tosse e dispnea. Il pulchellum ha anzi una lunga tradizione nella medicina tradizionale cinese: il decotto di foglie secche viene indicato per il trattamento di febbre, malaria, reumatismi, dolori ossei, edemi, iperplasia epatica e della milza. Quello a base di radice carbonizzata viene impiegato per ridurre il flusso mestruale eccessivo. La pianta intera viene consumata per il trattamento di di febbre reumatica, convulsioni infantili, mal di denti, edemi e indigestione. Le foglie fresche vengono pestate ed applicate su ulcere, ferite ed emorragie [6].
A Taiwan è stato impiegato per il trattamento di febbre e fibrosi epatica, mentre la medicina popolare malesiana propone un decotto con la radice per accelerare la ripresa durante il puerperio. Nelle Filippine se ne applicano le foglie su ulcere e pustole [7]. In Bangladesh, dalla parte aerea più tenera si ricava un decotto per il trattamento di edemi [8]. (Continua qui)
Rilanciamo qui la discussione in livestreaming programmata su Facebook per domenica 28 febbraio, dalle ore 17:00 alle ore 22:00 italiane.
Si parlerà delle terapie psichedeliche viste da una prospettiva psicoanalitica jungiana, oltre a interventi di approfondimento sulla mitopoiesi di Massimo Izzo (esperto che ha fatto parte della Missione Archeologica dell’Univesità di Pisa a Luxor, in Egitto) e di altri ricercatori italiani impegnati nel campo.
La riscoperta di un antico mito egiziano ci ricorda la necessità dell’uomo di sondare i propri abissi inconsci, rivelando il concetto junghiano di trauma come esperienza di incontro con l’ombra, incontro da cui è possibile emergere rinnovati, guariti e realizzati: paradigma su cui Ann Shulgin [moglie e collaboratice del noto ricercatore californiano Alexander ‘Sasha’ Shulgin (1925-2014)] ha sviluppato il suo approccio terapeutico con l’MDMA.
L’obiettivo è quello di esplorare quali siano le variabili interessate durante un’esperienza psichedelica, a determinarne le declinazioni così diversificate e soggettivate che possano renderla non solo un’esperienza che rievoca sempre una prima volta per l’impossibilità di predeterminarla, ma anche un’esperienza estremamente variabile e diversificata per ciascun singolo individuo, a parità di setting e di dosaggio.
Durante gli Stati Generali della Psichedelia 2019 era stata lanciata un’idea affine, nel tentativo di intraprendere una ricerca trasversale sulle peak experiences, che aveva sortito non poco interesse da parte degli addetti ai lavori e del pubblico. Come tanti progetti di ricerca lungimiranti, anche questo non è decollato per via della mancanza di fondi – pur meritando di essere ripresi e condotti sul campo, magari in collaborazione con prestigiosi centri di studio e ricerca, proprio come l’Imperial College, qualora venissero reperiti i finanziamenti necessari. In tal senso, la rete di Psy*Co*Re offre massima disponibilità per avviare e sostenere questa raccolta di informazioni, oltremodo preziose per rischiarare un certo “ignoto scientifico” che ancora gravita intorno all’esperienza psichedelica.
Non certo casualmente, l’iniziativa dell’Imperal College è curata da Tommaso Barba, un giovane ricercatore italiano (già in contatto con Psy*Co*Re), a cui ci si può rivolgere per ulteriori informazioni. Questa la sintesi dell’invito al sondaggio, a cui può ovviamente partecipare chiunque (i dati personali verranno completamente anonimizzati):
Con le domande previste in questo sondaggio, vorremmo coinvolgere attivamente il pubblico per aiutarci a produrre un questionario valido e comprensibile sugli effetti acuti delle sostanze psichedeliche. Anche il tuo contributo è importante per promuovere quest’approccio sperimentale e non giudicante rivolto alle sostanze, e per fare un passo avanti a sostegno della libertà di ricerca e del diritto della società per la scienza libera.
Hai mai fatto uso di sostanze psichedeliche (LSD, psilocibina DMT / funghi magici, ayahuasca, ecc.) e vuoi aiutare la scienza a comprendere più accuratamente gli effetti soggettivi di queste sostanze? Il Centre for Psychedelic Research dell’Imperial College di Londra ha bisogno del tuo aiuto! Per saperne di più e prendere parte allo studio, clicca su questo link: https://survey.alchemer.eu/s3/90293916/APE-Signup.
Decisamente importante la notizia appena diffusa da Nova Mentis, azienda canadese di biotecnologia specializzata in medicina psichedelica: riguarda direttamente l’Italia e potrebbe anzi segnare l’avvio della ricerca scientifica in questo campo emergente anche nel nostro Paese.
È stato infatti approvato l’invio di psilocibina sintetica all’università di Roma Tre, per lo studio della sindrome dello spettro autistico (Autistic Spectrum Disorder, ASD: caratterizzata da ridotte abilità relazionali e sociali, da comportamenti ripetitivi, stereotipie e una serie di sintomi secondari quali ansia, deficit cognitivi e disturbi dell’umore) in una ricerca condotta su animali da laboratorio.
Parimenti stimolante è il percorso razionale alla base di questa scelta. La ricerca in questo campo rimanda alle indagini avviate già negli anni ‘60 da Rick Strassman in Usa, presso l’Università del New Mexico ad Albuquerque (come riportato nel 1997 anche nel quarto numero di Altrove, la rivista annuale della SISSC). Gli studi elencati da Strassman presentano però, caratteristica tipica di quegli anni, problemi metodologici e risultati non del tutto convincenti, pur se incoraggianti – di conseguenza non compaiono nelle indagini recenti su psichedelici e ASD.
In realtà, sono scarsi gli studi recenti sulla possibilità di applicare composti psichedelici a questa severa patologia. Vanno tuttavia segnalati casi come quello di Aaron Paul Orsini che, diagnosticato con ASD all’età di 23 anni, sperimentò l’attentuamento delle sua condizione durante il suo primo viaggio con l’LSD, descritto in dettaglio nel libro dello scorso anno Autism on acid (da non perdere la presentazione dello stesso autore su YouTube).
Volendo approfondire la letteratura che gravita intorno alla questione vengono alla luce potenziali dei composti psichedelici (proprietà anti-infiammatorie, immunomodulatrici e di neurogenesi) diversi dalle loro caratteristiche più note (alterazione della percezione ed espansione della coscienza), ma non per questo meno promettenti.
Oltre il cervello: psichedelici tra corpo e mente
Gli interessi dell’azienda canadese Nova Mentis , promotrice del nuovo studio sul ruolo degli psichedelici nell’autismo, riguardano principalmente i potenziali effetti anti infiammatori degli psichedelici e la loro azione sul sistema intestino-microbiota-cervello.
Il microbiota, ossia la popolazione di microrganismi che abita il nostro intestino, è implicato non solo nella digestione di carboidrati complessi ma anche alla protezione dagli agenti patogeni, all’attivazione di processi anti-infiammatori e antiossidanti e alla stimolazione del sistema immunitario. Un’alterazione del microbiota è stata recentemente messa in relazione con l’eziologia della sindrome dello spettro autistico, ed è intrigante notare come gli psichedelici sembrano avere un possibile effetto benefico su di esso (ricordiamo che una larga percentuale dei recettori per la serotonina su cui queste sostanze agiscono si trova nell’intestino).
Anche lo stress ossidativo e l’infiammazione hanno una responsabilità nei sintomi autistici e, ancora, gli psichedelici rivelano un potenziale anti-infiammatorio che ha portato alcuni ricercatori ad investigare il loro ruolo terapeutico per malattie auto-immuni
Neuroni in trip: psichedelia e plasticità neurale
In questo nuovo studio italiano la psilocibina sarà testata in un modello preclinico di autismo, ampiamente validato dalla letteratura scientifica e basato sull’esposizione prenatale dei roditori all’acido valproico, un farmaco antiepilettico la cui esposizione, nell’uomo, è un fattore di rischio per l’incidenza della patologia.
Oggetto di ricerca sono anche gli effetti specifici prodotti dagli psichedelici sulla plasticità neurale (proprietà che consente al cervello di modificare la sua struttura e le sue funzioni attraverso cambiamenti dei singoli neuroni).
L’influenza psichedelica sulla crescita dei neuroni (neurogenesi) è però accertata, e probabilmente svolge un ruolo importante nello spiegare gli effetti anti-depressivi a lungo termine. Studi in vitro con cellule neurali hanno infatti provato che l’esposizione a psichedelici classici quali LSD e DMT aumenta la complessità della ramificazione di sinapsi e dendriti (fibre che permettono il passaggio del segnale nervoso e la connessione tra neuroni). Se questa influenza sulla plasticità potrà anche ridurre le alterazioni nocive al neurosviluppo causate dall’acido valproico è però ancora da stabilire.
Dal laboratorio alla pratica o dalla pratica al laboratorio?
Traendo alcune conclusioni: questo futuro studio psilocibinico italiano, il primo nel nostro Paese da quando si è osservata una forte ripresa delle ricerche in questo campo, oltre 20 anni fa in alcuni ambiti statunitensi, desta piacevole sorpresa ed è degno di interesse. Non ultimo perché parte integrante della seconda fase del revival generale in corso, tesa verso la necessaria “maturità psichedelica”. La speranza infatti è che questa ricerca possa contribuire a fare luce su aspetti ancora poco esplorati e misteriosi delle scienze psichedeliche come l’influenza sul microbiota intestinale, le proprietà anti-infiammatorie e di neurogenesi.
Caratteristiche affascinanti che mettono in risalto l’indissolubile unità del sistema corpo-mente e indirizzano ulteriormente la medicina verso un approccio sempre più integrato. Tuttavia ci auguriamo che l’Italia non si limiti a studi su modelli animali accentuando i soli aspetti bio-medici, volutamente trascurando la parte psicologico-esistenziale della ricerca in ambito psichedelico. Sono infatti gli stessi specialisti ad affermare che, sebbene gli studi di laboratorio con modelli animali siano fondamentali, solo l’esperienza umana può essere la fonte di ispirazione per una futura e autentica medicina psichedelica.
Manca meno di una settimana all’evento #ThankYouPlantMedicine (TYPM) di sabato 20 febbraio, iniziativa globale finalizzata a condividere apertamente storie personali di come le piante-medicina e gli psichedelici ci hanno aiutato a guarire e a cambiare vita.
Obiettivo generale è quello di creare un’ondata virale di consapevolezza e gratitudine, spingendo per porre fine allo stigma socio-culturale (oltre che alle norme proibizioniste) ancora evidente un po’ ovunque.
L’evento globale è organizzato dall’omonima rete di attivisti statunitensi, la cui pagina Facebook propone l’ultimo video-messaggio di Dave, cofondatore di TYPM, che chiarisce e rilancia ulteriormente l’iniziativa – di cui la rete Psycore è il partner italiano.
Domenica 21 febbraio sono previsti oltre 100 circoli di condivisione per tutta la giornata, aperti a tutti, disponibili in più lingue, con incontri ed eventi online, spazi di condivisioni e altro. Qui c’è il modulo su Google per segnalare eventi locali. In collaborazione con la Società Psichedelica Italiana, il 21 febbraio dalle ore 18:30 verrà facilitato un cerchio di Iside per chi volesse raccontare la propria storia o condividere riflessioni sulle esperienze personali con queste piante e funghi medicinali.
Dopo il lancio della rubrica di etnobotanica, inauguriamo un nuovo spazio periodico dedicato al fact-checking su quanto viene pubblicato sui media italiani riguardo alle sostanze cosiddette “psichedeliche” e dintorni. Come ulteriore passo nel percorso collettivo “verso la maturità psichedelica“, proveremo a offrire una lettura critica costruttiva, puntando su un approccio obiettivo ed epistemico, multivocale e riflessivo. Con il caldo invito a commentare liberamente in calce al post stesso (evitando, come sempre, le polemiche e attendendosi a dati oggettivi e fonti verificabili).
La scelta di questa prima uscita della rubrica è stata quasi casuale, visto che recentemente sul web italiano ha preso a circolare, in modo apparentemente inspiegabile, questo articolo risalente al febbraio 2020, oltre a un recente servizio de Le Iene (su Italia 1) che ha riproposto il medesimo episodio di Fiuggi. A scanso di equivoci, quindi, la nostra analisi non ha nulla di personale nei confronti del giornalista, né del giornale con cui collabora(va). Buona lettura!
Viste le ormai frequenti incursioni dei media mainstream sulla psichedelia, ci è parso utile sintetizzare qui di seguito il quadro complessivo di questo ambito specifico, a partire dal fact-checking di un intervento risalente a circa un anno fa che esemplifica l’approccio della “grande informazione” in Italia.
Apparso sul sito web de Il Giornale, a firma di Paolo Manzo, corrispondente dal Brasile, l’articolo prende le mosse da un fatto di cronaca: “Allarme ayahuasca, la droga letale «indigena» sbarca in Italia. Durante un controllo antidroga i Carabinieri hanno infatti sequestrato venerdì scorso in un appartamento di Fiuggi capsule contenenti all’interno polvere di ayahuasca. Denunciati a piede libero per «produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti», un 25enne di Aprilia, un 35enne svedese, un 40enne trevigiano e un 24enne di Roma”.
Tuttavia del caso specifico nulla viene detto, anche se parrebbe rilevante: abbiamo contattato uno dei denunciati, che ci ha spiegato com’è andata. I carabinieri, in parte in divisa in parte in borghese, si sono presentati con un mandato di perquisizione presso un casale dove il gruppo Ayahuasca Italia svolgeva ritiri e sessioni private. Il mandato di perquisizione era stato però emesso per tutt’altro motivo: le forze dell’ordine erano alla ricerca della pianta dell’iboga. Questo verosimilmente perché il gruppo italiano fa parte di una rete più estesa, che in altri Paesi propone nei suoi ritiri anche la pianta di origine africana.
I carabinieri hanno quindi proceduto al sequestro di numerose sostanze (tra cui rapé, incensi, resine, mambe) e hanno denunciato le persone coinvolte, che rimangono in attesa del risultato delle indagini chimiche. Tra queste, c’è anche un ridotto quantitativo di ayahuasca, in forma di decotto, quindi non «capsule contenenti all’interno polvere di ayahuasca», come si legge nell’articolo. Si noti che il gruppo in oggetto è già stato, in più occasioni, criticato e la sua attività risulta per molti versi censurabile.
Certamente non ne vanno nascosti gli utilizzi ambigui e i “curanderos” senza scrupoli, bensì denunciati e puntualizzati correttamente, anche e soprattutto per chi ne sa poco. In tal senso va ricordata la dichiarazione di oltre cento accademici, attivi sul campo, in appoggio al popolo Cofan, in una diatriba emersa nell’estate 2015 che coinvolgeva Alberto José Varela, a capo dell’organizzazione Ayahuasca International e del suo ovvio modello iper-commerciale.
Procediamo ora a una disamina di quanto affermato nell’articolo italiano di cui sopra. (>> Continua qui…>>)
[ Articolo di Gianluca Toro* ] . Tra le opere del ’900 che hanno trattato il tema delle droghe, Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza (1970) dello scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger (1895-1998) (pubblicato in italiano nel 2006) emerge sicuramente come una tra le piú significative sia per la varietà delle sostanze considerate che per le riflessioni proposte, espresse nella prosa lucida ed evocativa che da sempre caratterizza lo scrittore tedesco. Il testo di Jünger costituisce una fenomenologia degli stati modificati di coscienza indotti da alcool, etere, cloroformio, hashish, oppio, cocaina, funghi psilocibinici, mescalina e LSD, un contributo sulla scia di Thomas De Quincey (Confessioni di un mangiatore d’oppio [1822]), Claude Baudelaire (I paradisi artificiali [1860]) e Aldous Huxley (Le porte della percezione [1954]).
L’opera definisce anche il concetto di “psiconauta” contrapposto a “ricercatore delle droghe” proposto dallo studioso svizzero-islamico Rudolf Gelpke (1928–1972) ne L’ebbrezza in Oriente e Occidente (1966). “Psiconauta” significa “navigatore della psiche” ovvero viaggiatore del mondo mentale interiore attraverso l’assunzione di sostanze psicoattive. Nel testo di Jünger il termine sarebbe attribuito ad Arthur Heffter, il quale testò su di sé la mescalina pura negli anni 1896-1898.
Tra gi “avvicinamenti” di Jünger ci sembra significativo isolare nelle sue linee essenziali quello con l’LSD, in quanto la sostanza ha avuto un certo ruolo nel plasmare in parte la cultura del ’900, sia a livello di influenze in campi quali per esempio la letteratura, l’arte e la scienza, che per le personalità coinvolte. Jünger conobbe l’LSD direttamente tramite il suo scopritore, il chimico svizzero Albert Hofmann. I due intrattennero un fitto carteggio dal 1947 al 1998 (raccolto nell’omonimo libro del 2017), anno della morte di Jünger, che testimonia la nascita e il consolidamento di una sincera amicizia basata sul reciproco rispetto, carteggio in cui è possibile apprezzare l’origine e lo sviluppo quasi quotidiano delle loro riflessioni sia sull’LSD che su altre sostanze psicoattive.
Hofmann sintetizzò l’LSD nel 1938 come possibile analettico, ma le sue proprietà psicoattive furono evidenziate solo nel 1943 per via fortuita. Nel 1944 fu pubblicata la sintesi della sostanza mentre nel 1947 furono ufficialmente rese note le prime descrizioni degli effetti. Dall’inizio degli anni ’50 la casa farmaceutica presso cui Hofmann lavorava, la Sandoz, iniziò a distribuire l’LSD come una preparazione sperimentale sotto il nome di Delysid, e per tutti gli anni ’50 e i primi anni ’60 fu usato in psichiatria clinica e nella ricerca neurologica. Ma l’uso dell’LSD non rimase confinato ai laboratori di ricerca, e dai tardi anni ’60 si diffuse come droga ricreazionale, diventando illegale in diversi paesi. La domanda di LSD crebbe a tal punto che nel 1965 la Sandoz cessò volontariamente la distribuzione del Delysid, in quanto le richieste avrebbero potuto portarle una pubblicità negativa.
La prima esperienza di Jünger con l’LSD avvenne nel 1951 a Bottmingen, nei pressi di Basilea. All’incontro parteciparono Hofmann e il medico H. Konzett, seguendo l’intento di esplorare gli effetti della sostanza sulla sensibilità artistica. Jünger assunse una dose di 50 μg (microgrammi). Tra gli effetti riportati, oltre all’intensificazione dei colori e all’amplificazione e trasfigurazione della musica, lo scrittore descrisse la sua esperienza percettiva del fumo emanato da un bastoncino di incenso.
Il fumo trema, si avvolge e ondula in un gioco di figure lievi, “materia e movimento, abito e corpo non mostravano qui alcuna separazione”, “essere ed evento coincidevano in modo quasi assoluto, e cosí pure la visione e il fenomeno”, “quello che al principio si è separato si ricongiunge in una grande simmetria: l’alto e il basso, la valle e l’onda, […], il padre e la madre, la forza e lo spirito”. Il colore azzurro del fumo si trasforma in uno piú etereo che pian piano inonda il vuoto crescente dello spazio, “ ‘spazioso’ – è una condizione che intensifica lo spazio. […] il vuoto aumenta”, “non viene soppresso solo ciò che non ha importanza, ma anche quasi tutto ciò che ci appariva importante”.
In definitiva Jünger ebbe l’impressione che l’LSD non portasse “oltre le anticamere, per quanto finemente decorate”, il che fu probabilmente dovuto alla dose troppo bassa, definendo la sostanza “un gatto domestico, a confronto con la tigre reale, la mescalina; tutt’al piú un leopardo”. Jünger elaborerà questa esperienza in Visita a Godenholm (1952) in chiave di iniziazione alla scrittura ispirata.
In una seconda esperienza nel 1970, sempre con Hofmann, Jünger assunse 150 μg di LSD. Oltre nuovamente all’intensificazione dei colori, egli entrò in “altri spazi, dove tutto si acquieta”, in un “completo benessere”, come se “una ricca sorgente sgorgasse all’interno della visione”. Durante una passeggiata “la neve ardeva come la scoria appena uscita da un altoforno”.
Jünger interpreta le sue esperienze alla luce del bisogno di trascendenza dell’uomo moderno. Il tema è il superamento del tempo e la sua condensazione in un attimo di pienezza come quello che l’ebbrezza assicura. La condizione raggiunta è simile a quella del sogno, in cui compaiono oggetti liberati dalle loro proprietà ordinarie e che ne conquistano di nuove rendendoli piú “vigorosi”. Se la sua forza aumentasse ancora, si abbandonerebbe il mondo dei sogni e si entrerebbe in nuove realtà.
L’ “essere stato lí una volta” può provocare un mutamento che rimane ignoto alla persona. L’acuirsi della sensibilità, che potrebbe anche essere permanente, e l’affinamento del giudizio permettono di avvicinarsi al “reticolo fondamentale”, ovvero a una sorta di struttura invisibile che definisce la realtà proiettandosi in essa. Si tratta di una forma diversa di conoscenza che ha i suoi pericoli. Come scrisse Arthur Rimbaud, “I veri viaggi sono immobili”.
*Gianluca Toro è un chimico in campo ambientale. Si interessa di composti psicoattivi naturali nell’ambito dell’etnobotanica e dell’etnomicologia, nonché di composti psicoattivi sintetici, con particolare riguardo per l’aspetto chimico e farmacologico. Ha pubblicato articoli per riviste italiane, francesi, spagnole, tedesche e americane.