Di seguito un ulteriore intervento ripreso dagli Stati Generali della Psichedelia in Italia (SGPI21), proposto da Federico Battistutta e apparso sulla testata Machina (dell’editore Derive/Approdi). Si tratta di un’ampia riflessione critica sul cosiddetto «rinascimento psichedelico» e di un partecipe omaggio alla figura di Mark Fisher, di cui proprio in questo mese ricorre la data della sua morte (13 gennaio 2017).
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“Vorrei un uscire multiplo, a ventaglio. Un uscire che non smetta, un uscire ideale, tale che, uscito, io ricominci subito a uscire”.
–Henri Michaux[1]
1. Da tempo si parla, a torto e a ragione, di «rinascimento psichedelico» per descrivere il rinnovato interesse in giro per il mondo per gli studi sulle sostanze psichedeliche e le sue possibili applicazioni. A testimonianza ci sono articoli su periodici e una cospicua bibliografia, tanto di testi divulgativi, quanto di ricerche accademiche. Molti in Italia preferiscono declinare la questione nei termini di un’acquisita maturità psichedelica nel corso degli anni, tesaurizzando le esperienze passate, incidenti di percorso inclusi.
Ma cosa si vuole intendere con questa espressione: «maturità psichedelica». Quale maturità e in che senso? Credo che sia importante aver chiaro le parole che usiamo, per intenderci reciprocamente ed evitare il rischio di equivoci, incomprensioni o di scivolare in vere proprie patologie comunicative.
Riflettiamo dunque su questa espressione: “maturità psichedelica”. Innanzitutto il termine «maturità» in biologia indica il pieno compimento della crescita fisica di un essere vivente; tanto per le piante, quanto per gli animali, umani inclusi. Se per gli animali umani è possibile risalire facilmente a una maturità fisica, più complessa appare la definizione di una maturità psichica, affettiva, etica e intellettuale. Del resto il latino maturus sta a indicare più sommessamente ciò che è «pronto per», ci parla di ciò che è tempestivo, opportuno, che accade ed è idoneo al momento giusto. Ma, a ben vedere, questo essere «pronto per» non definisce un’essenza bensì un processo, funziona sempre in relazione a qualcosa/qualcuno.
Provo a chiarire il discorso. Nella nostra lingua abbiamo la parola «adolescente», che deriva dal participio presente del verbo ădŏlescĕre (crescere, aumentare) di cui «adulto» ne costituisce il participio passato. L’adolescente sarebbe colui che sta crescendo, mentre l’adulto è chi è giunto al termine della crescita, diventando maturo. L’adulto sarebbe quindi il soggetto che ha la funzione di consumare il patrimonio accumulato in precedenza. Sembra semplice, ma in realtà le cose non stanno propriamente in questi termini. L’adolescente non è un adulto immaturo e l’adulto non è un adolescente al termine dello sviluppo.
Qui ci è di aiuto Georges Lapassade. Molti lo conosceranno come studioso competente della transe e degli stati modificati di coscienza[2], ma forse non tutti sanno che si è occupato, e non poco, anche di pedagogia. Il primo libro che pubblicò nella sua lunga carriera fu Il mito dell’adulto (in realtà il titolo originale è L’entrée dans la vie), un saggio dove sosteneva la tesi che l’essere umano è costitutivamente incompiuto. Ciò che caratterizza la specie umana, osservava Lapassade, è una condizione di costante incompiutezza, l’essere sempre in formazione, senza che si possa individuare un momento in cui il processo è concluso e il percorso di maturazione ha raggiunto la sua fine (o il suo fine)[3]. Lapassade qui riprende il concetto di neo-tenia elaborato nella prima metà del Novecento da Louis Bolk, direttore dell’Istituto di Anatomia dell’Università di Amsterdam, secondo cui sotto l’aspetto corporeo l’essere umano altro non è che il feto di un primate giunto a maturità sessuale[4]. L’ipotesi sul processo di ominazione che Louis Bolk ci consegna è decisamente spiazzante e va in controtendenza rispetto l’opinione comune: noi sapiens, siamo quel che siamo in quanto cronicamente immaturi e incompiuti; in altre parole, saremmo non scimmie progredite, evolute, bensì scimmie mancate. Bolk, dal canto suo, non considerava la componente creativa che a partire da questa condizione alimenta e nutre l’animale umano, divenuto così messaggero di storia e di mutamento continui. Ciò che non ha fatto Bolk lo ha compiuto, come abbiamo visto, Lapassade e non solo lui[5].
L’operazione di Lapassade, decostruendo la condizione adulta e la conseguente nozione statica di maturità, riducendo in fondo questi discorsi a materiale mitico, ha permesso di far emergere la prospettiva secondo cui lo sviluppo umano si gioca durante l’intero arco della vita. Detto altrimenti: l’età evolutiva coincide con l’intera vita umana, al cui interno la condizione adulta non è quel periodo circoscritto della vita nel quale consumiamo il patrimonio cognitivo, affettivo, etico ecc. accumulato nelle precedenti fasi, ma è pure esso momento di crescita, con le sue opportunità e difficoltà. All’interno di questo discorso va dunque demitizzata la nozione di maturità. La maturità va sempre contestualizzata, storicizzata e, soprattutto, ne va colta l’ineliminabile processualità, il continuo divenire. Divengo maturo – «pronto per» – in relazione a qualcosa/qualcuno; dove prima non ero in grado, ora sento di esserlo, di potercela fare. C’è una maturità dell’infante, una del bambino, dell’adolescente e così via. Si tratta dunque per Lapassade di passaggi, di un transito continuo (e questo aspetto permette, fra l’altro, di cogliere il legame tra i suoi studi pedagogici con quelli sugli stati di coscienza; in fondo Lapassade si è occupato sempre di transiti, si pensi solo alla sua nozione di transe[6]).
Ora torniamo a noi. Cosa c’insegna tutto ciò se lo riportiamo al discorso relativo alla maturità psichedelica? Cosa può suggerire? Se «psichedelico» vuol dire letteralmente «rivelatore della psiche»[7], queste rivelazioni non sono mai statiche, rinviano a continui divenire, a nuove epifanie, a quell’”uscire multiplo” di cui parlava Michaux nella citazione posta in esergo e pertanto richiedono costanti e plurali ridefinizioni e messe a punto della condizione di maturità.
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