Oh non conosco alcuno che sia escluso
dall’effetto mortifero e invadente
della Signora dalle ascelle spente
dagli occhi come bossoli sparati
dalla parlata umida d’asfalto.
L’ascolto, regredendo al primordiale,
alle rughe che invadono il pianale
della mia faccia pallida e elusiva,
al singhiozzo, che scende micidiale
a bombardare le coreografie,
bucando condutture di liquame,
ballonzolando al ritmo delle iguane,
sotto il torpido sole equatoriale.
Gli amanti della Bomba e del caviale,
sodomizzati su lettini d’aria,
risplendono in sorrisi floreali,
con porcellane e vetri di Murano,
dove sguazza, nel liquido fatale,
l’incubo delle vergini e dei dotti,
il ratto senza vincoli sociali,
il becchino di logiche seriali.
Il camionista ch’è inchiodato in sella
all’edipico cazzo del suo mezzo
e sogna i sogni che la Bomba induce,
col capo reclinato sulla tetta
espansa in gomma piuma profumata,
nulla sa, l’uomo, del creato intorno
e, come nel marsupio di un canguro,
chiede “Madonna fa che l’abbia duro”
e la Madonna Coca Cola in festa
gli appare sgocciolante sulla cresta
d’un tramonto di fuoco in Polinesia,
con i coralli intossicati e spenti,
gli squali ammorbiditi e senza denti
e l’ombelico che ci spinge fuori
nel fungo dell’atomica francese.
Trasfigurata estatica visione
d’un razzo ch’è bottiglia ascensionale,
psichedelica Bomba criminale,
figlia corrotta del codice stradale,
del diritto ecclesiastico e penale,
della crisi nel vivere civile,
col corpo tutto in preda al mal sottile,
che divarica il buco e la parola,
che si ficca le dita nella gola,
che emette in branco rantoli di iene,
scuoiate al vento, faticanti a stento
nel distinguere netto il male e il bene,
ahi questa Bomba bambola geniale
che tutto annulla e tutto ti concede!
Rimbomba Coca Cola nel motore,
la tigre che t’azzanna dritta al cuore
e il camionista non ha più dolore.
L’anestesìa totale l’ha infilzato
tra spente parallele di dovere.
Stella è l’ostello, dove andrà a sedere
seguendo la cometa che gli appare
come mistica guida nell’andare.
Irradia verosimili sembianze
di mondi iperdinamici ad oltranza,
che s’elìdono svelti in una mattanza
color del sole in cima alla collina,
dove già di mattina il merlo canta
alle fortune della Bomba santa,
sgocciolante Kali della vacanza.
Il mare che t’affetta la visione
con la liquida lama del suo stare
e l’ostensione inutile del fare
decapita col ritmo sempre uguale.
Con un balletto d’ombre e di pagliacci
persino in Himalaja ride chioccia
di Bomba Coca Cola il volto esploso
sulle attònite vittime dell’Orda,
mentre s’annera Milarepa, il Santo,
confermando nel fatto ch’è illusione
il credere ad un verbo che canzona.
Nel profondo di cellule ancestrali,
con mosse deduttive s’è insediata
ed ora esplora il mondo da animale
a sangue freddo, facendosi guanciale
della credulità ‘consuma e getta’.
Incerta e lunga a sera è la brughiera,
dove l’ombra si fa leggenda e casa.
Tradito dal suo cogito imperioso,
tra stecchi e sassi cerca la maniera
di dare un senso all’essere mostruoso
ch’alberga in lui e lento lo divora
nel vivere seriale: ancora e ancora.
L’uomo controlla, tra alambicchi e storte,
confusa tra i calzini e le mutande,
ove sia la Psiche che Amor brama.
Lode alla vecchia epigrafe sul marmo!
Schizzi di pioggia la rendono immortale.
E il tutto che si srotola banale
firma l’Apocalisse della Bomba,
la bimba Coca Cola bolle e vezzi,
ch’abbraccia com’un’edera la tomba,
per digerirla, per ridurla a pezzi,
perché il tutto ha un futuro e non rimane
ch’accelerare un poco ed altre tane
in preda all’estro troveremo insieme.
Nel riso a goccioline si rifonda
la civiltà del ‘Mais tout va bien mon chou’
ch’a testa in giù divarica la bocca
tutta laccata e tutta a bollicine
per farne uscire in gola la Vittoria
con lo Spirito Santo del Progresso,
con i devoti uniti in un consesso
per mangiare panini e Coca Cola
e risorgere atletici e coglioni.
Emozioni di lastrici accaldati,
di geometrici spazi rinsaldati
dall’afa color biacca che divora
pianure e colli in lenta successione
ma viaggia a confermare l’ombra stanca
l’uomo di maggio con la Bomba in mano.
Saluto teste rosse, teste accese.
Venerabili teste tibetane,
con la pazienza della capra alpina,
dipingono un mandala impermanente,
un occhio attraversato dall’Assenza,
un momento di tempo evanescente
mentre scorrono via come pelli
di serpenti sinuosi nella sabbia
le vite programmate di coloro
che in fretta sono assunti dalla Borsa.
Ma a ristorarli c’è la Coca Cola,
che giace, a causa del bombardamento,
accanto al lento scorrere del fiume.
Accanto s’ammonticchia il putridume
dell’abortito, del non mai amato.
Ne emana un cielo grigio intossicato,
che non si duole d’essere il segnato,
colui che annuncia al mondo che la fine
non è il di poi ma il dentro tra le brine.
L’afflitto ricordare del Fiammingo
non prevedeva per l’Apocalisse
che un quinto cavaliere provenisse
di là dal mare, allegro e spumeggiante,
invadendo le gole dei fedeli,
gonfiandosi a Babele fino ai cieli,
cancellando le stirpi in un osanna,
facendo ricadere la condanna
sul capo delle genti peregrine,
come sta scritto nel caso di Nembrotte
che, glorioso all’inizio, le ossa rotte
ebbe alla fine del suo sogno nero.
– Gianni Milano, 1994