Ottima la panoramica sull’editoria e la cultura psichedelica nostrana dell’ultimo mezzo secolo appena pubblicata su L’indiscreto, a firma di Andrea Cafarella, nel contesto di un’ampia riflessione a partire dal ’69 psichedelico italiano. Dove si annuncia l’agognata ristampa de Il volo magico di Ugo Leonzio per Il Saggiatore, con la puntuale prefazione di Agnese Codignola. Una pietra miliare in quest’ambito, pubblicata nel 1969 da Sugar e negli Oscar Mondadori, e poi letteralmente scomparso di scena — pur se rimane «la migliore esposizione di questi argomenti tutt’oggi disponibile in lingua italiana», come ricorda giustamente il buon Giorgio Samorini.
Nel segnalare una varietà di libri in tema passati e recenti, il (lungo ma stimolante) pezzo vola variamente tra enteogeni ed esoterismo, espansione della coscienza e controcultura, esperienze personali e rinascimento psichedelico – puntando a una sorta di “ritorno alla mistica psichedelica”. Ne riportiamo alcuni stralci:
«L’uso della droga ha lo scopo di sperimentare l’ascensione spirituale: volare, superare distanze immense, scomparire, sono alla base della ricerca estatica: sperimentare sul piano reale, carnale come ha detto Eliade, ciò che per la condizione umana è accessibile solo sul piano dello spirito». La questione mistica – questo ci preme individuare in questo ragionamento – è fondamentale, secondo Leonzio. È il centro della discussione. Non solo per quanto riguarda gli allucinogeni, «queste evasioni tossiche sono alla base di tutta la topografia mistica delle religioni orientali e della religione in genere, almeno nella sua formazione rudimentale». Torniamo qui al discorso che anche Graham Hancock porta avanti, quando, all’inizio del suo Sciamani, ipotizza il ruolo fondamentale che avrebbero avuto gli psichedelici nel momento della formazione della nostra coscienza, attraverso, appunto, l’estasi mistica, ovvero lo strumento ultimo di quell’arte fondativa dell’essere umano che è proprio l’arte di conoscersi. «Tutte le forme mistiche hanno usato, ai fini di provocare l’“estasi” o gli stati di beatitudine, metodi in grado di alterare la normale chimica del corpo. Le quaresime, i lunghi digiuni dei contemplativi di clausura impoverivano di vitamine il sistema nervoso, provocando una diminuzione dell’efficienza del cervello, in grado di provocare visioni. Le cerimonie medioevali dei Flagellanti utilizzavano per le battiture fruste di cuoio intrecciate con filo di ferro. L’atto della frustata liberava nel sangue grandi quantità di istamina e adrenaline, che insieme a varie sostanze tossiche prodotte dalle proteine in via di decomposizione, provocavano visioni simili a quelle degli stati schizofrenici. Il canto continuato, le cantilene interminabili del sacerdote sciamanistico, avevano come fine inconscio di aumentare la percentuale di CO2 nei polmoni e nel sangue. E ugualmente per gli esercizi orientali di respirazione». L’uso di sostanze psichedeliche sarebbe quindi solo uno degli strumenti da accostare alla pratica mistica, «non riteniamo che le droghe siano un surrogato per giungere all’estasi pura, un’alternativa al decadere della tecnica sciamanica», piuttosto una delle tecniche sciamaniche, oppure sarebbe meglio dire: una delle componenti di alcune delle tecniche sciamaniche. Pensiamo al tamburo, al canto e a tutti gli strumenti coinvolti nelle pratiche citate poc’anzi. Cosa sarebbe l’autoflagellazione senza flagello? Eppure, non basta un flagello per raggiungere l’estasi e la beatitudine.
«Ma i grandi mistici, lungi dal mostrare una confusione fra l’Io e l’ambiente, agiscono con grande efficacia e con acuto senso delle realtà sociali. L’Io, il Sé, che va smarrito nell’illuminazione mistica, non è quell’Io – o Sé – necessario all’esecuzione pratica dei propri compiti». Lo ripete quindi anche Fingarette; il vero problema, per il mistico che ha raggiunto l’estasi e l’illuminazione, sarebbe il fatto che non potrà mai vivere come viviamo noi e nemmeno in mezzo a noi, poiché sembrerebbe un folle, non potrebbe mai accettare l’ipocrisia di questa società. Noi stessi facciamo un’enorme fatica nel concepire che «La morte dell’Io, che dovrebbe precedere lo stato di “satori”, è per il mistico solo la morte della personalità, preoccupata della propria immagine; non l’eliminazione del livello cosciente; al contrario, [è] la sua elevazione». Il mistico non muore – nell’esperienza psichedelico mistica – per «staccare il cervello», per scordarsi di sé per qualche tempo e poi tornare alla pratica dell’apparire. Il mistico muore per rinascere. Totalmente diverso. Sempre diverso: illuminato, per essere un uomo nuovo, un mago. L’esperienza psichedelica diventa quindi un viaggio mistico verso la luce, fino alla salvazione che deriverebbe dall’ascolto profondo del Bardo, per produrre una vita davvero religiosa e una coscienza nuova e senza fine. L’esperienza mistica è quella di Giordano Bruno; forse – ci consiglia sempre Mazza Galanti – può tradursi in quella versione politica che aveva iniziato a progettare Mark Fisher quando scriveva il suo Acid Communism. L’esperienza mistica è il contatto con il sacro, attraverso il rituale che nasce da una fede alimentata dalla pura conoscenza, dal sapere che deriva da una pratica intensa e senza fine. L’iniziato sa di non poter mai arrivare a una risposta definitiva. Bisogna sapere di non sapere. La consapevolezza è tutto.
Per saperne di più, rimandiamo all’articolo integrale su L’indiscreto, curato da Andrea Cafarella: Il Sessantanove psichedelico italiano: differenze e coincidenze tra esperienze psichedeliche e mistiche.